Lo so che il venerdì ormai è il giorno dedicato a John
Woo qui sulla Bara, ma visto che la rubrica sul genietto del cinema di Hong
Kong sarà una maratona, mi sembra doveroso fare una piccola deviazione lungo il
percorso, non potevo certo lasciare incompleta la trilogia di
A better tomorrow.
Che forse è anche quello che ha pensato Tsui Hark,
malgrado tutto, malgrado anche l’evidente strappo con il suo socio e compare
John Woo, quello che ha reso
A better tomorrow II, un seguito dalle due
anime, affetto da personalità multipla proprio perché figlio del compromesso
tra due personalità che lèvati, ma lèvati proprio. In realtà John Woo e Tsui
Hark hanno provato ancora una volta a collaborare anche per il terzo capitolo
della saga che ha rivoluzionato il cinema di Hong Kong prima e quello mondiale
dopo. Se avete familiarità con la produzione di Woo, non è difficile
immaginarlo come uno dei suoi anti-eroi, incapace di lasciare indietro un amico, ma niente, ormai lui e Tsui Hark si trovavano su posizioni inconciliabili.
Pomo della discordia? Una donna o meglio, il triangolo
amoroso che Tsui Hark voleva inserire nel film, facendo storcere il naso a Woo
che lo riteneva fuori luogo, visto che i due precedenti capitoli (e molta della
sua produzione) erano basati sull’amicizia virile e anche a quel senso di colpa
e responsabilità molto cattolico, che stava a cuore al regista nato Wu Yu-sen,
tutta roba che in linea di massima sarebbe tornata, prepotentemente
aggiungerei, nel film che Woo ha diretto per “ripicca”: «Ah quindi tu farai un
film ambientato in Vietnam? Io ne farò uno migliore con black jack e squillo di
lusso!», ok magari John Woo non ha citato il
robot Bender andando via,
ma sicuramente ha sbattuto la porta.
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Si vede che è arrivato Tsui Hark vero? |
Senza più il vecchio compare di mezzo, Tsui Hark ha campo
libero e marchia a fuoco “A better tomorrow III” con il suo stile, concedendosi
molti lussi (anche quello di mettere parecchia carne al fuoco) tra cui
emanciparsi dalla città di Hong Kong, non più sfondo di un capitolo che arriva terzo
ma è a tutti gli effetti un prequel, dove Chow Yun-Fat torna a vestire i panni
del personaggio che lo ha reso celebre, ma anche idolo di molti ragazzi che nel
porto dei fiori, indossavano occhiali da sole e pastrano lungo fino alle
caviglie, per imitare lo stile del suo
Mark Gor.
Un personaggio riportato indietro di dodici anni rispetto
al primo capitolo, anche se Chow Yun-Fat (più vecchio di tre anni) risulta
comunque credibile per la parte del giovane Mark, che in questo melodramma ci
viene raccontato cedendo alla tentazione (tipica di molto cinema occidentale
più che di quello orientale) di narrare la storia di origini dei grandi miti
cinematografici. “A better tomorrow III” è ambientato nella Saigon dell’anno
1974, con i Vietnamiti ormai prossimi a vincere la guerra e a scacciare tutti
gli stranieri dal loro Paese, compresi i protagonisti, il giovane Mark Gor interpretato
nuovamente da Chow Yun-Fat e il suo amico Cheung Chi Mun, che ha il volto di Tony
Leung Ka-Fai anche lui, sulla cresta dell’onda e popolarissimo in patria, di lì
a poco avrebbe consolidato la sua fama recitando per Jean-Jacques Annaud in “L'amante”
(1992).
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Questa bara vuole sempre bene ai Tony. |
Avete presente il racconto a base di bottiglie da scolare
e revolver puntati alla tempia che Mark Gor ci descrive – con enorme trasporto –
in
A better tomorrow? Bene, era una scena fortemente voluta da Tsui Hark
che qui ha l’occasione per dimostrare al mondo cosa aveva in testa per il personaggio,
e lo fa con quel suo stile barocco e roccoccò che ha sempre caratterizzato il
suo cinema, dove il più delle volte un evento storico ben noto al pubblico
orientale, fa da sfondo alla sua trama, insomma un’abitudine che verrà
consolidata dal regista.
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La Storia, sullo sfondo della storia. |
In “A better tomorrow III” i due amici e protagonisti,
sono impegnati ad utilizzare tutti i metodi, legati ed illegali per lasciare Saigon portandosi dietro il vecchio e malato padre di Cheung Chi Mun, in mezzo
a tutto il corollario di situazioni e personaggi ormai tipici del cinema di Hong
Kong, abbiamo quindi criminali che tutto sanno e tutti tengono in pugno con cui
fare i conti, oltre a parti uguali di melò e scene d’azione, che hanno tutte lo
stile della regia di Tsui Hark. Quindi dimenticatevi il gran lavoro di
montaggio applicato ad una trama tutto sommato lineare alla quale ci ha
abituati John Woo nei
primi due capitoli, lo stile di Tsui Hark punto
tutto su un tipo d’azione ben più concitata, esplosioni di violenza in cui il
rallenti è utilizzato quasi in modo opposto al suo ex compare, John Woo lo ha
sempre utilizzato per enfatizzare l’epica ricordandoci che anche nel duello
eleganza c'è (
cit.), Tsui Hark invece utilizza il rallenty per far
emergere la brutalità, lavorando parecchio sullo scontro tra campi lunghi e
primi piani strettissimi, una regia con una mano sulla macchina da presa e l’altra
sul cuore, più o meno all’altezza dove chiunque si reputi uno dei giusti, porta
con se Sergio Leone.
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Chow Yun-Fat & M-16 (hanno entrambi un trattino a testa, gran coppia!) |
Citato apertamente, perché in alcune sequenze ci sono
rimandi espliciti a
Il buono, il brutto, il cattivo, ma anche idealmente,
d’altra parte siamo davanti ad una storia che riporta le lancette del tempo
indietro, quasi un modo per applicare la lezione imparata con la “trilogia del
tempo” del Maestro Leone, per una storia che è un lungo flashback (quindi puro Leone)
che guarda caso, ha in un personaggio femminile uno dei suoi elementi chiave, niente
Claudia Cardinale però, qui si è scomodato il meglio del meglio che il
porto dei fiori potesse regalare al mondo, se Chow Yun-Fat e Tony Leung Ka-Fai
erano popolarissimi, a confronto di Anita Mui erano due bambini dell’asilo:
attrice, cantante, amatissima dal pubblico del grande e del piccolo schermo,
immaginatevi Bruce Springsteen nel New Jersey e una cantante neomelodica a
Napoli mescolati insieme e avrete una mezza idea dello status di icona di Anita Mui ad Hong Kong.
Tsui Hark infatti le regala un’entrata in scena epica, la
sua Chow Ying-kit, che diventerà il centro del triangolo amoroso che muove il
film, entra in scena vestita di bianco, automatica in una mano, M16 nell’altra,
con quella chioma di capelli corvini sempre Elektra Natchios se Frank Miller l’avesse
disegnata orientale e non greca, ovvio che i due protagonisti se ne innamorino,
per quella che è una storia Leoniana nello spirito.
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Elektra Anita: Assassin |
Con quel suo tocco melò Tsui Hark ci mostra come, dove e
da chi un mito come Mark Gor ha imparato a sparare, educazione di una canaglia
citando uno dei miei scrittori preferiti, per un film che ha il coraggio e la
faccia tosta di far saltare il banco. Se non lo avete mai visto e vi aspettate
il grande cinema a cui ci ha abituati John Woo, “A better tomorrow III”
potrebbe essere un salto dello squalo, anche se partite già mentalmente
preparati all’idea che malgrado le tre barre verticali al fondo del titolo,
vedrete comunque un prequel, quindi una storia dove si sa già chi non potrà mai
morire. Per questo motivo, o forse perché in occidente abbiamo concentrato
giustamente le nostre attenzioni più su un autore come Woo, questo capitolo è spesso
trascurato, considerato quasi non canonico rispetto alla saghe di cui fa parte.
Personalmente dubbi nella mia vita non ne ho mai avuto, se
mi chiedete se preferisco lo stile autoriale, melodrammatico quanto volete ma
rigoroso nei temi e nel montaggio di John Woo, al melò cuore in mano di Tsui
Hark, il fatto che io abbia in corso una
rubrica sul primo e non sul secondo
dovrebbe bastarvi come risposta, ma se amate il cinema di Hong Kong, “A better
tomorrow III” è una tappa obbligata, un bellissimo e coinvolgente canto del
cigno.
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Ed Bunker avrebbe approvato. |
L’azione è ok, i personaggi sono interessanti, la
cresciuta di Mark Gor motivo di interesse, così come le prove del cast, ma
passa tutto in secondo piano rispetto al finale del film, dove Tsui Hark lascia
indietro tutto in favore della pura narrazione per immagini. Il cinema del regista
e produttore è sempre stato più viscerale che davvero logico, votato alla
ricercatezza dell’effetto finale, d’altra parte parliamo di quello che ha fatto
esplodere il Colosseo con aiuto di JCVD e Dennis Rodman in “Double Team - Gioco
di squadra” (1997), eppure qui sembra uno posseduto dal desiderio di raccontare questi personaggi.
In quella corsa finale verso l’elicottero, insieme ai
protagonisti se ne va un intero modo di fare cinema, tra i personaggi principali qualcuno morirà e qualcuno è destinato a salvarsi, ma il cinema di Hong Kong,
quello che sarà eternamente ricordato per commedie, Wuxia e soprattutto noir e
film d’azione, qui vola letteralmente verso il suo tramonto, su un elicottero su
cui sono stati caricati a forza tutti i suoi eroi ed eroine.
Siamo agli sgoccioli degli anni ’80, Tsui Hark che
insieme a John Woo è stato autore e responsabile di quella incredibile
rivoluzione cinematografica che dal porto dei fiori ha sconvolto tutto il
mondo, chiude il suo film, il suo melodramma su morte, amore e amicizia con una
trionfale cavalcata verso il tramonto, ovvero come dovrebbero finire TUTTI i
film.
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Altroché l'arancione di Wes Anderson, tzè! |
In “A better tomorrow III” nessuno ha difficoltà a
sparare ma tutti hanno difficoltà emotive, nessuno vuole tradire (anche se
stesso) ed è tutto così dannatamente immerso nel melò da far risultare davvero
troppo troppi ogni personaggio e situazione, eppure quel finale si fa perdonare
parecchio, perché con quell’elicottero verso il tramonto vola via una pagina di
cinema nata ed esplosa in un luogo come Hong Kong, che in quel periodo storico
era il contesto perfetto per generare un fermento creativo a ben guardare
brevissimo ma abbagliante.
Scegliere di accompagnare quella cavalcata verso il
tramonto, con le note di
Song of Sunset cantata proprio da Anita Mui è in linea
con le dosi abbondanti di melò tanto care a Tsui Hark, ma anche il modo più
spettacolare per render omaggio ad una breve epoca di creatività che aveva Hong
Kong come ombelico del mondo e il 1989 come un anno chiave, non è un caso se
proprio andando via sbattendo la porta, l’ex amico e compare John Woo, anche un
po’ in risposta a questo film con il Vietnam sullo sfondo e il melodramma nel
cuore, firmerà i suoi due film più intensi e riusciti, d’altra parte il noir d’azione
di Tsui Hark e John Woo ci hanno insegnato anche questo no? Dalla competizione
maschile può nascere di tutto, anche un altro paio di capolavori di cui non
vedo l’ora di scrivere.
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Alla fine di questo film, Chow Yun-Fat assorge completamente a modello di anti-eroe di Hong Kong. O forse all'inizio? Si tratta di un prequel. |
Molto presto per altro, perché tra sette giorni questa
rubrica tornerà sui binari prestabiliti per affrontare un titolo monumentale
della filmografia di John Woo, ma capite da soli che questa doverosa deviazione
era una tappa obbligata, bisognava rendere omaggio a dovere alla conclusione
della saga di “A better tomorrow”, che poi è quello che chiunque spera
di avere, un domani migliore.
Se devo essere sincero questa pellicola mi manca proprio, ne conoscevo l'esistenza ma non mi sembra di averla mai incrociata (almeno sul piccolo schermo). Però se garantisce ulteriori dosi di Chow Yun-Fat, anche se non coreografate dal Maestro Woo, allora me l'hai venduta comunque.
RispondiEliminaNon ho molto da aggiungere, sicuramente l'ambientazione vietnamita può risultare interessante e anche l'innesto di un interesse amoroso può avere un perché, d'altronde il potere della "faiga" tira più di un carro di buồi vietnamiti... Buon venner
Un po’ il destino di questo film, specialmente qui da noi in occidente, ragionando per autori e non essendo diretto da John Woo è stato ingiustamente ignorato. Gli preferisco i suoi due fratellini, ma è un bel film, gli echi Leoniani ci sono tutti e mi colpiscono sempre, capisci perché ho voluto scriverne no? Buon venerdì anche a te. Cheers!
EliminaRivedendo questi giorni i primi film del Jet Li produttore mi pare chiaro che le diverse scuole di Tsui Hark e John Woo hanno creato "fedeli": per quanto sia un maestro indiscusso, Yuen Woo-ping seguiva palesemente lo stile di Hark (anche se per fortuna non è matto col botto come lui), mentre Corey Yuen è palesemente per la scuola di John Woo, e tutti e due sono figli di Chang Cheh (amicizia virile, l'epica del combattimento uno contro mille, ecc.). Per quanto siano tutti grandi cineasti da togliersi il cappello, personalmente sono per il filone Woo, forse perché si rifà ad un'epica e a uno stile che noi occidentali possiamo capire molto meglio.
RispondiEliminaRiassunto perfetto, per noi occidentale è più facile apprezzare Woo perché è davvero l'unico regista orientale che ragiona in termini di film da queata parte del mondo, ai suoi collaboratori non parla di film orientali, usa come esempi Mel ville, Hitch, a volte Antonioni (ne parleremo), per questo è diventato un ponte umanoide tra i due mondi. Cheers!
EliminaJohn Woo spacca sempre e di brutto, mi piacerebbe vederlo, in seguito lo recupero, questo e altri film di John Woo, comunque, insieme a Michael Mann sono due assi del cinema action dobbiamo dirlo ^_^
RispondiEliminaSenza ombra di dubbio, questo te lo consiglio anche solo per concludere la trilogia, anche perché è un ottimo film. Cheers!
EliminaEssendo parte della trilogia non si poteva non includerlo, ovviamente. Un prequel che, a posteriori, ci mostra quale avrebbe potuto essere lo stile anche dei precedenti capitoli se solo fosse stato Hark ad avere la meglio: non ne sarebbero venuti fuori cattivi film, certo, ma personalmente rimango ancora oggi dell'idea che la scelta "Wooviana" sia stata la migliore ;-)
RispondiEliminaConcordo in pieno, da qui il motivo della rubrica dedicata solo ad uno dei due, con tutti il rispetto per l'altro ;-) Cheers
EliminaMetti insieme un gioello di John Woo e lo stile iperbolico di Tsui Hark e il risultato è lo stesso sorprendente, un melò quasi trattenuto dove l'action diventa ancora più spettacolare.
RispondiEliminaPer quanto io propenda per lo stile di Woo, questo resta un filmone ;-) Cheers
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