mercoledì 10 febbraio 2021

Radiofreccia (1998): senza biglietto sul Frecciarossa per l’età adulta

C’è un cadavere, in questa bara schiodata, a cui il vostro Quinto Moro era particolarmente affezionato, perciò oggi lo stile sarà più da fanfara dolente che da pezzo rock. Di solito cerco di tenermi vicino allo stile della Bara, ma questo pezzo ve lo scrivo col cuore in mano e le cuffie nelle orecchie.

Del film ve ne parlo così: senza mutande armatura e col volume a palla

“Radiofreccia” l’avevo mandato a ripetizione più volte dalle parti dei miei vent’anni. Non lo rivedevo da tanto eppure ai primi minuti ho capito più chiaramente perché il nostro amico Bruno Iori (detto Bruno Iori), parlando agli ascoltatori della sua radio per l’ultima volta, decidesse di spegnere il segnale un minuto prima di “farla diventare maggiorenne”.

In principio era “Radio Raptus”, nata diciotto anni prima da una banda di amici ai tempi delle radio libere, quando cioè negli anni Settanta il canale FM era stato liberalizzato lasciando spazio a chiunque avesse la voglia e i mezzi per trasmettere. Nemmeno il nome originale è un caso, se al buon Bruno viene in un vero e proprio raptus di follia: “o si fa la radio, o si muore” (Garibaldi ne sarebbe fiero).

“Questa radio chiude perché è ora” dice Bruno. Quel perché non mi era del tutto chiaro prima di mettermi a scrivere questo pezzo. Perché non te lo spiega il film. Te lo spiega il tempo.

Diciotto anni meno un minuto. Un minuto prima di diventare grandi. È la morte della gioventù. La fine di un’epoca, del tempo che non torna. Dovevo diventare più vecchio e noioso, scavato dentro dal passaggio dei trent'anni per arrivarci.

Come dice Bruno, diciott'anni prima lui e i suoi amici avevano diciotto o vent'anni. Bruno ha più o meno l’età che ho io adesso (e che avranno molti di voi che stanno leggendo). Lui e compagni sono cresciuti negli anni Settanta di cui noi possiamo fare esperienza solo dai film, o dai racconti di chi c’era, così Radiofreccia è una macchina del tempo che comunica da un estremo all'altro dell’Italia a misura di paesello. È il racconto dei piccoli borghi e comunità dove tutti si conoscono, dove le cose sono in piccolo, più calde e accoglienti che nella dispersione delle grandi città dove si ragiona per quartieri ma si può spaziare. Anche se poi la logica del quartiere è deviata dalla stessa sgorbia logica di paese. Ché tanto le cose in piccolo, più cresci e più si fanno strette, fino a stritolarti, come succede a Freccia.

Ma di quel tempo e quel mondo, se siete nati nei ’70 o negli ’80, fieri tombaroli degni di questa bara, qualcosa l’avete raccolta e ve la portate dentro. E se siete venuti dopo armatevi di pala che c’è tanto da scavare. 

“Oh, non velo ripeto più eh! La Bara non è perfetta. Le bare nei funerali sono perfette. Belle o brutte, ma perfette.”

Il film è chiaro da subito su cosa vuol essere: non un piagnisteo da vecchidimmerda che si lamentano di come “eeeeeeeh ai miei tempi”. È quella nostalgia che tira un cazzotto all’ipocrisia sbattendoci in faccia la realtà di un ventenne morto d’overdose, buttato in un fosso. Non è uno spoiler, Freccia è morto già al minuto 5. Nessun pathos sul perché la radio si chiami così. Già lo sappiamo.

Freccia è un orfano che ha vent'anni, un lavoro e una madre vacca. Ha nostalgia del padre e rabbia dentro. E’ un operaio lontano dai tumulti di piazza. Uno che tira a campare. Ma non è Freccia il protagonista. È il suo mondo che è come un tessuto fatto di tanti fili, tante persone. E non è un film sull’amicizia perfetta che trionfa su tutto. C’è l’idealismo e la vicinanza, ma pure il distacco e a volte l’indifferenza. Freccia e i suoi amici sono imperfetti gli uni per gli altri. La scena più potente arriva nel confronto tra Bruno e Freccia, quando si parla faccia a faccia dell’eroina, con un capolavoro di montaggio e interpretazioni: scambio serratissimo di sguardi che mette a nudo tutto il disagio di Freccia e i suoi più fidati amici che ne sanno così poco. Perché l’amicizia è anche l’incapacità di capirsi e sostenersi fino in fondo, tra buoni sentimenti e piccole cattiverie, chiusi nella speranza che le cose rimangano sempre le stesse, storditi dal diventare adulti. 

Freccia fuma aspettando che l’introduzione finisca e la bara sotto i suoi piedi decolli

Radiofreccia è una storia del borgo, tante storie che si intrecciano, senza conoscersi fino in fondo e senza capirsi, e alla fine resta solo il ricordo della strada fatta insieme, o degli incroci. È un po’ della storia di Bruno, il romantico che s’innamora dell’idea d’una radio per far sentire la sua voce, uscendo dal guscio di bravo ragazzo fino a promuovere una spedizione ladrona per far nascere il sogno. Ed è quasi un anarchico mancato, l’amico più fidato di Freccia, quello a cui rivolgersi nel momento del bisogno.

Poi c’è Tito, il bonaccione più ingenuo e sfigato del gruppo, coi suoi demoni, che nemmeno sa di averli finché non lo travolgono.

C’è Boris il cinico, lo stronzo che non si smentisce mai. Quello che fa il superiore, catechizzando gli altri per farli sentire delle merde.

Iena, che a dispetto del nome non farebbe male a una mosca, tipico primo della classe, regolare fino al midollo. È quello che non crede alle leggende metropolitane dei “pesci siluri” e animali esotici nei laghetti dei ricconi nelle ville di campagna. Quello che non si ribella mai, che non si tuffa nello stagno con gli amici. Il primo che si sposa (una specie di onta nella logica del gruppo).

E c’è Freccia, che ha qualcosa del buono e del cattivo di tutti. Con la sua rabbia e il suo vuoto. Quello a cui tocca il ruolo di protagonista suo malgrado. È quello di cui la storia parla perché con la morte è uscito dal racconto di una vita misera e banale, lasciando in eredità agli altri il vuoto della sua presenza. 

Un giovane e sexyssimo Stefano Accorsi intento a spararsi una motosega mentale sul significato del film

La storia di Freccia passa per uno degli espedienti narrativi più usati: la voce narrante di un amico che ha condiviso col protagonista carismatico parte della sua vita. Freccia è per Bruno quel che Dean Moriarty è per Sal Paradiso in “Sulla strada”, quello che Martino è per Alex in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (il film tratto dal libro omonimo lanciò Accorsi, tra l’altro). Ma senza Bruno non ci sarebbe la storia di freccia, dimenticata nel gorgo di tanti tossici morti in un decennio di indifferenza. Perché in questo film c’è la voglia e l’onestà di raccontare quel po’ di storia che all'Italia non è mai interessato raccontare: quella dei tossici. Nel periodo storico in cui le siringhe affollavano i sottopassaggi dei ponti, in cui i tossici in overdose attraversavano in barella i pronto soccorso degli ospedali, in cui pezzi d’una generazione scomparivano nel silenzio il cinema italiano trovava la sua identità nella commedia sexy. Oh, non è moralismo contro le docce della Fenech e le battutacce di Alvaro Vitali, ma m’è sempre rimasto sul gozzo che come unica presa di coscienza su buchi e overdosi il nostro cinema si fosse fermato ad “Amore tossico”.

Perciò questa radio libera col nome di un tossico morto mi ha preso da subito. Era già tardi, era il 1998, ma credo non sia tardi per parlarne, ché a ricordare non è mai abbastanza tardi. 

“Ma l’hai invitato te ‘sto rompicoglioni che fa discorsi da vecchio e parla di tossici?”, “Tesoro, è un amico”, “La prossima vita scegliti amici migliori”

Il film non idealizza la gioventù con l’aria mitica di anni gioiosi e perfetti che non ci sono mai stati. La sceneggiatura – come regia e montaggio – azzecca i tempi del racconto piazzando la diaspora degli amici a metà film, così da mostrare un prima e un dopo. Le strade dividono la compagnia cresciuta insieme, che si credeva indissolubile.

Radiofreccia è un racconto di perdita, del distacco dagli amici più cari che prendono strade diverse, invischiati in storie che non ti appartengono più. È così per Freccia e la sua deriva nell’eroina che lo estrania agli altri. Per Iena il matrimonio. Per Tito il carcere. Bruno e la sua passione per la radio, che non è tanto un capriccio adolescenziale quanto una presa di coscienza. È diventare qualcosa, un’estensione di se stessi. La scoperta e la voglia di avere qualcosa da dire, una voglia di crescere ancora inespressa, che avanza. L’uscita dalla zona di confort dell’adolescenza senza l’impatto duro con la realtà, perché la realtà la conoscevi anche prima. È un’isola di salvezza dal terreno che ti frana sotto i piedi mentre stai crescendo.

E’ ora di affrontare l’elefante nella stanza. Beh, quasi.

E adesso parliamo un po’ come si conviene alla nostra Carabara, come direbbe uno dei nostri venticinque lettori.

L’elefante L’ippopotamo nella stanza: il nome di Luciano Ligabue alla regia fa sgranare gli occhi ad alcuni e avvelena il dente del pregiudizio ad altri. Il film è nato per l’intuizione di Domenico Procacci alla lettura del libro di racconti “Fuori e dentro il borgo” scritto proprio da Ligabue. Procacci, che con la sua Fandango si è fatto un nome nella produzione italiana, all’epoca non era ancora così noto, e Radiofreccia è uno dei suoi primi (e più grandi) successi e intuizioni. Intuizione che fa seguito alla follia, dopo aver pensato a questo e regista, di lasciarlo dirigere aveva respirato storie, cioè Ligabue, che si è lasciato convincere – a stento – pur non sapendo nulla di come si gira un film, guidato dalla sola passione per il cinema. Certo ha potuto contare su tecnici talentuosi, ma oltre al cast azzeccatissimo della cricca di amici, la visione di un racconto coerente e sentito si percepisce tutta. Questo non è un filmetto musicale che si aggrappa alle musiche e la regia di Ligabue non è un pretesto promozionale, con quei tocchi sperimentali da opera prima un po’ ruvidi che a me piacciono un casino.

Del Liga non sono un detrattore ma nemmeno un fan, e la storia di come ho scoperto questo film meriterebbe un capitolo a parte. Materiale per le guardie. Ve la racconto? Non l’ho mai raccontata a nessuno, giuro. Ma sì dai. 

Spero non ci siano guardie (o amici delle guardie) all'ascolto

Radiofreccia l’ho scoperto per colpa di una vhs difettosa. Compro ‘sta vhs “X-Files – File 11 Patient X” a 17.900 lire (tutto mi ricordo, tutto!) ma quella è più silente e pudica come un nastro vergine. Rabbia, ira funesta, ché al di fuori degli eventi natalizi e compleannici, le spese per film e fumetti venivano dai miei risparmi. Lire 17.900 erano un investimento. Solo che due giorni dopo trovo la stessa vhs nel cesto di un altro centro commerciale, a 4.500 lire. Che fare? Ce n’è una sola. Chissà se l’altra la rimborsano. La compro.

Torno al primo centro commerciale per restituire la vhs guasta, fare un cambio merce, ma il commesso niente, non ne vuole sapere. Quella ho comprato, e quella uguale devo riprendermi. Non posso nemmeno tentare di rivendermela a qualche amico, come coi fumetti doppi. X-Files non se lo fila nessuno (adolescenza dura dalle mie parti). “Ma posso aggiungere la differenza” dico. “Niente da fare” dice il commesso. ‘Sto servo dei padroni. Chino la testa, annuisco, e lui fesso se ne va.

Davanti ho una muraglia di vhs invitanti, ma allo stesso prezzo non ce ne stanno. Tutte più care. Quella che costa meno è Radiofreccia, che fa 20.900 lire. Un film fatto da Ligabue? Sarà una cafonata, penso, tipo Jolly Blu degli 883. Ma chissene. Almeno la canzone “Radiofreccia” mi piaceva. E insomma, rimetto a posto X-Files, tengo sottobraccio Radiofreccia e mi dirigo all’uscita senza acquisti. Sudori freddi davanti alla guardia giurata. Occhiata fugace. C’è il pannello antitaccheggio. Nelle orecchie c’ho un pezzo dei Punkreas che mi profetizza tutto quello che accadrà: suona! Che pacco! le mani nel sacco!

Manette. Spiegazioni vaghe. Sbugiardamento. Umiliazione. Galera.

E invece niente. Non suona. Esco. Ho perso due chili e uno spallaccio sull'armatura dell’onestà. Ma ‘stigazzi.

A casa guardo il film il pomeriggio stesso. Me ne innamoro. Tra le altre cose, mi farà da mappa per la storia del rock negli anni successivi. Lynyrd Skynyrd, Iggy Pop, David Bowie, Doobie Brothers eccetera. Ma questo è materiale per un Rock’n’blog. Vi basti sapere che il rock d’epoca è stato usato col preciso intento di accompagnare questa o quella scena, e non per buttare lì un pezzo figo.

L’uso della colonna sonora non originale è tra i migliori che abbia mai visto, lontano dalla ruffianata facile. Vale pure per gli elementi di contorno che raccontano un’epoca senza esasperare la nostalgia: le cose che si facevano ai tempi, non erano più importanti di tutto il resto. La scena di Tito e Freccia ai videogiochi è un doppio manrovescio al romanticismo per i bei tempi andati della cultura pop. 

“Oh, ‘cazzo mi parli dei tuoi problemi che sto vincendo a Space Invaders?”

La fotografia di Arnaldo Catinari è tanta roba. C’è una cura maniacale nella composizione cromatica in tutte le scene. Fateci caso al rosso colore dominante, legato al personaggio di Freccia, che sembra rappresentare il centro delle sue passioni e preoccupazioni. Tappezzeria, abiti, veicoli, elementi d’arredo. Rosso ovunque, della medesima tonalità (un rosso fuoco, carminio), a volte contrapposto a un blu ceruleo meno invasivo. Il rosso c’è anche quando non lo noti, ma appare sullo sfondo, sui costumi. E’ uno dei simbolismi sparsi e mai urlati, come il flashback d’infanzia di Freccia con la testa mozzata del pesce che fa il paio con la pesca al pesce siluro (che non è mitologico ma esiste davvero), o la scena dell’ippopotamo, ingombrante incarnazione di tutte le angosce che non si riesce a scacciare. Momenti surreali che raccontano qualcosa dello stato mentale di Freccia, e ognuno può leggerci qualcosa. 

Manuale del simbolismo: vita tra due fuochi

La scena più famosa resta il monologo di Freccia alla radio, il suo “credo” di valori fondamentali, che sono poi quelle robe che ci aiutano un po’ tutti a tirare a campare, dalle prodezze di un campione sportivo ai riff di un rocker, dalle legnate della vita di tutti i giorni a quel po’ di senso da cercare in un libro o in un film. O in un blog.

E allora, visto che ho parlato abbastanza voglio chiudere come ha fatto Radiofreccia:


Grazie a Quinto Moro per aver commentato il film, vi ricordo di passare a trovarlo sulla sua pagina.

28 commenti:

  1. Film sorprendente per quanto è bello anche se ruspante. Accorsi sarà anche criticabile in molti film ma qui è perfetto. Peccato solo che Ligabue dopo questo ha diretto l'orrendo Da Zero A Dieci.

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    1. Concordo, infatti quella robaccia di "Da zero a dieci" ha confermato quanto "Radiofreccia" sarà stata anche l'unica (radio)freccia in faretra per il cantante, ma era davvero qualcosa di sentito. Cheers

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    2. "Da Zero a dieci" lo vidi al cinema, ad un cineforum di film italiani. Purtroppo era girato peggio, fotografato peggio, recitato peggio, e anche la storia era decisamente più debole anche se portava avanti un discorso sull'affrontare l'età adulta. Ma era molto più approssimativo e con dei momenti pure imbarazzanti.
      Radiofreccia è stata una di quelle cose che succedono, non si sa come o perchè, e non si ripetono.

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  2. Lo vidi al cinema all'epoca della sua uscita e lo ricordo come un film onesto. Ci ho messo l'orecchietta con la promessa di tornarci su, ma senza fretta. Dopo la splendida trattazione di Quinto Moro, però, inizio a sentire la spinta dell'urgenza.

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    1. Ne vale la pena, specie se ti piace un certo tipo di musica perchè la colonna sonora già basterebbe.
      Per fortuna c'è anche tutto il resto.

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  3. Uno di quei film "belli", ma che la claque di fan di Ligabue ti fa venire a noia... tanto che l'ho visto solo di recente per intero, grazie a SKY.

    E dico "per intero" perché in realtà le scene clou le conoscevo tutte, come il "credo"

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    1. Ma infatti bisogna slegarlo dal personaggio e dalla fanbase di Ligabue. Il film vale a prescindere, è valido proprio dal punto di vista cinematografico.

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  4. Omettiamo da dove li hai persi, quei 2 chili. E' capitato anche a me. ;)

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  5. Allora...sul Ligabue cantante non dico nulla perche', nel bene o nel male, con le sue cassette ci siamo cresciuti tutti.
    Ha il suo stile, e da li' non si muove. Vale a dire che e' da trent'anni che orbita sempre attorno a "Piccola stella senza cielo".
    Mai stato troppo esploratore, in quel senso (quando uno nasce mediano...).
    Ma questo fu una vera sorpresa.
    Il Liga che si mette a fare film. Mah.
    E l'ho trovato pure bello, pensa te.
    Forse non sara' esperto di tecniche cinematografiche alla pari di quanto e' appassionato di cinema.
    Ma e' uno che viene dalla bassa, dai nostri posti. E cavolo, se si vede.
    E' vero, siamo nei 70. Ma contate che fino alla prima meta' del decennio successivo gli scampoli di quel mondo li potevi ancora trovare. Specie nei paesini di qualche migliaio di anime (dannate) a ridosso della grande metropoli.
    Il corrispettivo ruspante di NY col New Jersey.
    Posti che sapevano essere caldi e accoglienti, ma anche crudeli e bastardi in egual misura. Con la differenza che in citta' puoi passare una vita, prima di incrociare i tuoi fantasmi. In provincia te li ritrovi una sera al distributore mentre fai quel gotto di benza (con un deca...) che basta a non lasciarti a piedi.
    Posti a misura d'uomo. Anche se certe volte ti domandi a chi le hanno prese queste misure, dal tanto che ti senti schiacciare.
    E allora ognuno si rolla e si fuma il suo spinello, che non dev'essere per forza quello autentico.
    Ci si sballa con qualunque cosa si trova e capita a tiro. Le passioni, le cazzate, la compagnia...vale tutto, per costruirsi l'armatura e tenere a bada i propri mostri.
    E quando non si resiste piu' si arriva a bucarsi, sempre che la si rimedia. O ci si butta su altro. Anche di peggio.
    Perche' si sente che tutto fa schifo e da li' si vuole uscire, in qualche modo.
    In qualunque modo.
    Il vero orrore e' diventare adulti.
    Scendere dalla giostra prima di diventarlo, col proprio carico di problemi e responsabilita', con in piu' il rimpianto di quando i problemi manco si ponevano?
    Spesso e' solo il ricordo. La memoria. Che ammanta il passato con la patina della nostalgia.
    Anni che forse non vale la pena rimembrare, perche' non erano cosi' belli come pensiamo.
    Meravigliosi, si'. Ma anche terribili. E ogni tanto ci si chiede come si e' fatto ad uscirne vivi. E piu' o meno indenni.
    Perche' in tanti, in troppi non c'è l'hanno fatta. O hanno deciso di non farcela.
    Alle volte quella di non crescere e' una necessita'. Oppure di smettere di farlo.
    Per sempre.
    Li' per li' mi sono illuso di aver assistito alla nascita di un nuovo regista, bravo perche' inaspettato.
    Fini' subito dopo, purtroppo. Il tentativo seguente aveva anch'esso roba buona. Ma anche tanta, troppa di tutto quello che negli anni ho imparato a odiare del cinema nostrano.
    Beh, complimenti a tutti e due.
    Davvero un gran bel pezzo, che mi ha fatto viaggiare.
    E si, "Jolly Blu" era una schifezza.
    Se mi posso permettere...il vero film sugli 883 e' un altro.
    "Gli anni d'oro" del grande e compianto Ade Capone.
    Da quel fumetto sarebbe venuto fuori un film stupendo.

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    1. Gli strascichi di quegli anni e quelle storiacce anni '70, hai azzeccato, nei paesini sono sopravvissuti più a lungo credo, si sono trascinati sino a farsi conoscere dalle generazioni successive, anche se sono stati in pochi a conoscerle e adesso sembrano non essere mai esistite.
      Non sono d'accordo solo sul fatto che sia meglio non ricordarli, anzi proprio perchè non erano così belli vanno ricordati.
      Radiofreccia è un pezzetto di memoria, mentre Amore tossico era tutto incentrato sul mondo della droga e sul degrado, Radiofreccia raccontava quella vita di provincia in cui era molto più facile riconoscersi.

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    2. In realta' la penso uguale.
      Se si ricorda al solo scopo di mitizzare i ricordi stessi e autoalimentare una nostalgia verso un passato che non puo' tornare (e che sta bene dove sta, secondo me. C'e' un tempo per ogni cosa) allora non serve poi a molto.
      Certo, ci si casca tutti, ogni tanto. Perche' e' allettante, crogiolarvisi.
      Ma alla lunga stanca, e' fine a se' stesso e non porta a nulla.
      Se invece serve per farci presente che se siamo ancora qui, vivi pur se mezzi scassato e ognuno con le proprie cicatrici che si porta dentro, e' perche' abbiamo sviluppato degli anticorpi all'esistenza con i contro-cosiddetti.
      Allora, forse, se ne puo' cogliere il senso. E capire che tutto quel che abbiamo passato non lo abbiamo passato invano.
      Ti rinnovo i complimenti, comunque.
      Un pezzo che mi ha fatto riflettere.

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    3. Sono pienamente d'accordo con Redferne, ciao bro, nel senso che non bisogna fare i soliti discorsi pieni di stereotipi che in passato si viveva meglio, la provincia è superiore alla città, mitizzando dei periodi che non erano proprio tutto rose e fiori, non che adesso sia meglio... Insomma ogni periodo, epoca ha suoi pro e contro, ma forse quegli anni ci toccano particolarmente perché eravamo giovani, pieni di speranze e un pò meno disillusi. Ma erano comunque anni difficili, trovare un lavoro cominciava ad essere un'impresa, c'era la droga che girava e anche la delinquenza non scherzava. Il problema della droga l'ho sempre associato alla solitudine, nel senso che ho conosciuto molti ragazzi che ci sono cascati proprio per il fatto di non avere un supporto famigliare e sociale, si sono trovati schiacciati da difficoltà che abbiamo passato tutti ma senza avere la sensazione di essere "supportati", anche dagli amici, che spesso se la squagliano quando capiscono che sei uno problematico... Comunque siamo dei sopravvissuti, ora dobbiamo tirare avanti senza dimenticare il passato, ma senza nemmeno mitizzarlo 👋

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  6. Non è per me, visto una volta e mai più rivedrei, questa volta non siamo in sintonia, fa niente ;)

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    1. Eh, ci sta. Ognuno ha i suoi scogli dove naufragano tanti film.

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  7. Film di cui ho tanto sentito parlare ma che non ho mai visto. La tua recensione appassionata è un invito notevole alla visione!

    Poi hai citato pure i Punkreas, è la gioventù che ritorna! X--D

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  8. All'epoca lavoravo alla Mostra dove venne presentato. Avevo il turno di mattina presto (orario di proiezione per i giornalisti) e non c'era tanta gente così, come di solito si faceva, uno dei due alla porta entrava a vedere il film e l'altro cazzeggiava in attesa (nel '98 non c'erano i cellulari coi giochetti... Al massimo un libro o un giornale, ma non si poteva perché poteva passare il Capo). Tecnicamente era il mio turno di vedere il film ma non mi ispirava granché però... Oh, è un film di Ligabue, vediamolo e amen. Da quando ho saputo solo dopo, due posti a fianco il mio avevo Ligabue, entrato di soppiatto dall'altro cancello, che aveva visto il film di nascosto per sentire le reazioni della stampa.

    Ammetto che mi acchiappò, forse perché avevo l'età giusta e certe cose, come le amicizie e l'ambiente "popolano" mi erano famigliari.

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    1. In effetti avere "l'età giusta" per un determinato film fa la differenza in quanto lo apprezzi e ti coinvolge.

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  9. Io 45enne oggi l'ho sentito mio. Mio perché pur abitando nel levante ligure vengo da un paesino dell'appennino emiliano una volta 2000 anime ora meno di 1000 dove al bar trovavi di tutto. Mio perché lo vidi nel 99 anno in cui morì mia madre e la mia vita prese una strada diversa da quella dei miei amici di infanzia e io non apparteneva più a loro e loro a me. Mio perché sarei potuto in un certo qual modo essere un Freccia o un Tito ma alla fine ho provato ad essere Bruno. È un film a cui voglio bene.

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    1. Penso che sia la forza del film, basta essere cresciuti nella provincia di uno strambo Paese a forma di scarpa e allora, diventa quasi automatico ritrovarsi in questa storia. Cheers!

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    2. Proprio perchè non è una storia sola ma un intreccio, ci sono tantissimi personaggi con una loro personalità, anche i ruoli secondari sono importanti per raccontare quel microcosmo, da Kingo che è un tamarro, a Bonanza fissato col cinema, o Guccini allenatore di calcio.

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  10. Questo bellissimo post mi ricorda quando ero giovane e mia mamma diceva di stare attento alla droga. Ora sembra qualcosa molto distante dalle nostre esistenze ma ricordo molto bene alcune scene brutte di gente con le siringhe negli anni '80 a cui ho assistito. Anche alcuni conoscenti hanno fatto una brutta fine a causa di questa terribile sostanza, quindi è un tema che mi tocca nel profondo. Il film, come molti, l'ho visto in vhs senza avere grandi aspettative. Mi incuriosiva soprattutto vedere come se la sarebbe cavata Ligabue e devo ammettere che ha dato molto della sua anima rock alla pellicola, almeno quando ancora ne aveva una, dopo ha perso un pò l'ispirazione, fino a inizi 2000 lo ascoltavo volentieri, senza esserne un appassionato. Accorsi non lo sopporto, invece, però qui risultava meno insulso che in altre parti, forse perché era ancora "grezzo"... 👋

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    1. Accorsi era ai suoi esordi, aveva infilato uno dopo l'altro "Jack Frusciante è uscito al gruppo" e "Radiofreccia", era diventato il volto giovane del cinema italiano ed ha avuto una pioggia di ruoli nei primi 2000.

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  11. Ahaha se hai rischiato la fedina penale sporca per RADIOFRECCIA hai tutta la mia stima, bro.
    Film che amo, che ho visto al cinema e che ho in DVD... per me un cultissimo italiano della nuova generazione.
    Incredibile, sì, Liga ci ha saputo fare sia come racconto che come regia, che come storie... e musica pure.
    Nient'altro da aggiungere.
    Vorrei ancora e ancora film italiani così. Storie di borgo, semplici, di provincia.

    Moz-

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    1. Più che altro ho rischiato per colpa di X-Files, e per colpa di un commesso imbecille.
      In realtà il cinema italiano di storie di provincia ne racconta spesso ma in modo molto più costruito e superficiale, e tira fuori filmetti che fanno venire l'orticaria.

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  12. In pratica ti sei immedesimato in Bart Simpson nell'episodio del taccheggio.

    Mai visto, ma cercherò di recuperarlo dopo questa bellissima recensione.

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    1. Vogliamo gente forgiata e pronta a tutto per i film (e X-Files) qui alla Bara ;-) Cheers

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