Gli Americani hanno un’espressione per tutto e quando non
ne hanno una, la inventano, a me è sempre piaciuta molto quella che potremmo
tradurre come il re della collina.
Diventare
il re della collina, un concetto che riassume la
tendenza a competere, per diventare il numero uno tipica degli Yankee, ma è
anche un modo per riconoscere una persona di un certo successo, qualcuno
facilmente identificabile come un leader nel suo campo ed ora che ci penso mi
pare che ci sia anche un cartone animato che s'intitola così.
Eppure, è un’espressione anche un po’ malinconica, perché al
massimo splendore sei un re certo, ma pur sempre di una collina, poca roba
rispetto ad una montagna, una volta puoi essere stato il re della collina, ma
poi sei rotolato giù ed ora sei a malapena ricordato.
Un certo grado di machismo del tipo migliore, una regalità
conquistata sul campo per meriti manifesti e una notorietà data un po’ troppo
per scontata, tutto questo, e un gioco di parole cretino con il suo cognome, mi
fa pensare a Walter Hill, per me uno dei più grandi di sempre, il protagonista
della nuova rubrica della Bara Volante che sognavo di fare da quattro anni, ma
che comincia oggi, quindi benvenuti a… King of the hill!
Ormai dovreste saperlo come sono i registi che piacciono qui
alla Bara Volante: ribelli, testardi, controversi, dotati di un incredibile
talento e spesso ostracizzati. Walter Hill è uno dei maestri che l’industria
del cinema (ma anche molti appassionati) sembra aver dimenticato o quantomeno
isolato. Al pari di
Romero e
Carpenter è un ribelle e anche se meno politico
dei due citati, Hill ha sempre portato avanti il suo cinema di genere, anzi, a
cavallo dei vari generi, risultando mai retorico, ma sempre alla ricerca di un
concetto di classico che fosse sempre virile ed elegante in parti uguali.
Cinema da uomini, insomma, di quello che ti fa abbassare la voce di due tonalità
e ti fa credere i peli su, su… Che ti fa crescere i peli. Punto.
Il nostro Gualtiero Collina, californiano DOC, studia storia
e letteratura alla Michigan State University e poi insegue i suoi registi del
cuore nell’avventura del cinema, signori che rispondono ai nomi di John Ford,
Howard Hawks, John Huston, Sam Peckinpah e Sergio Leone (scusate se è poco), e
con qualcuno di questi finisce anche per lavorarci, perché Hill si fa le ossa,
ma anche un nome nel giro che conta, grazie alle sue prime sceneggiature.
“La morte arriva con la valigia bianca” (1972) di Robert
Culp, “Il ladro che venne a pranzo” (1973) di Bud Yorkin, “L'agente speciale
Mackintosh” (1973) di John Huston e “Detective Harper: acqua alla gola” (1975)
di Stuart Rosenberg, hanno in comune oltre ad una sceneggiatura scritta da Gualtiero
il tema di fondo, storie di personaggi in condizioni complicate costretti a
fare scelte coraggiose per portare a casa la pelle, tutta roba che si trova
anche in “Getaway!” (1972) il filmone di “Bloody” Sam Peckinpah con Steve
McQueen e Ali MacGraw che lancia la carriera di Walter Hill.
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Non posso iniziare una rubrica, senza la tradizione dei titoli di testa. |
Nel 1975, poco più che trentenne, Hill passa dietro la
macchina da presa e comincia la sua collaborazione con il leggendario
produttore
Lawrence Gordon, giusto
per non mettergli altra pressione, si ritrova a dirigere due mostri sacri come Charles
Bronson e James Coburn al loro terzo film insieme dopo
I magnifici sette e “La grande fuga” (1963).
Il titolo a lungo avrebbe dovuto essere “The street fighter”,
modificato al volo per non essere confuso con il film con Sonny Chiba con lo
stesso titolo, da noi diventato “Il teppista” (1974). Perciò il titolo diventa “Hard
Times”, per un’invenzione della nostra distribuzione, questa benedetta strada
doveva comparire per forza, visto che da noi il film diventa “L’eroe della
strada”, scelta discutibile visto che di eroi in senso classico, in questi film
non ce ne sono di certo.
Dal punto di vista della sceneggiatura (scritta insieme a Bryan
Gindoff e Bruce Henstell), Walter Hill anticipa già molti dei temi che
diventeranno la base del suo cinema, mentre dal punto di vista della regia, Gualtiero
Collina è secco, essenziale, Melvilliano, con una capacità di raccontare per
immagini micidiale e un’abilità nel girare che ancora oggi, trovo in
pochissimi registi.
“Hard times”, tempi duri, quelli della grande depressione,
che il film ricostruisce splendidamente e cosa vi dico sempre dei primi cinque
minuti di un film? Ne determinano tutto l’andamento. I primi cinque minuti di “L’eroe
della strada” sono il miglior biglietto di visita possibile per il regista e
più in generale per il cinema di Walter Hill.
Se non fosse che si presenta facendosi chiamare Chaney, il
protagonista risponde all’archetipo western dello straniero che arriva in
città, non lo fa a cavallo, ma su un treno, di certo non in prima classe, da
clandestino imboscato nel vagone dove di solito vengono caricate le bestie. Ha
la faccia,
sempre la stessa, di Charles
Bronson che solo con quella ci racconta tutto il passato del personaggio senza
bisogno di parole. Walter Hill piazza la macchina da presa alle spalle di
Bronson, mentre il paesaggio scorre, una scena muta, solo musica che ci
presenta il protagonista, la sua condizione di poveraccio, il suo orgoglio e il
periodo storico in cui la storia è ambientata, mica male come inizio.
Chaney tutto quello che possiede lo ha addosso e quello che
usa per campare lo porta appeso all’estremità delle braccia, ha “I pugni nelle
mani” per dirla alla Maccio Capatonda e sa benissimo come usarli, infatti va
dritto dove si disputano gli incontri di boxe clandestini, non quelli con i
guantoni no no, quelli a mani nude, una disciplina che possono praticare solo
quelli che sono davvero matti nella testa, oppure gli Irlandesi, anche se le
due cose sono quasi dei sinonimi.
Ad organizzare sono dei manager improvvisati come Speed, interpretato
dai dentoni e la faccia da schiaffi di James Coburn, il cui uomo di punta va
sotto con perdite contro il pugile gestito da un altro manager, con i denti da
topo e la faccia uguale. Hill ci regala tutti questi dettagli solo con le
immagini, il primo dialogo arriva più avanti, quando Chaney si autocandida a
nuovo pugile di Speed scommettendo i suoi ultimi sei dollari sulla sua stessa
vittoria.
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“Io invece scommetto tutto su Walter Hill, il ragazzo farà strada”. |
Charles Bronson nel 1975 aveva già superato i cinquanta,
anche se li portava alla grande, per farlo funzionare nella parte, Hill
aggiusta la sceneggiatura pensata per un attore più giovane e lo fa con una
riga di dialogo, al primo scontro, l’avversario lo sfotte «Sei un po’ vecchio
per questa roba nonno» PAPAM! Chaney gli piazza una carocchia e lo manda a
dormire. Non una parola, un trionfo dell’azione sulle parole, da qualche parte
nel mondo, il giovane Michael Mann, futuro regista (bravino) prende appunti.
Speed e Chaney diventano una squadra, uno organizza incontri
l’altro picchia come un fabbro, insieme vanno a New Orleans a cercare fortuna,
perché i tempi sono quelli che sono e il mestiere tocca inventarselo, così come
il modo per continuare a campare.
Questi due personaggi hanno già tutte le caratteristiche dei
protagonisti dei film di Walter Hill, sono una coppia di opposti che funzionano
alla grande insieme, Chaney parla poco (come Driver, Danko e il Nick Nolte di “48
Ore”) l’altro non sta zitto un minuto (come il Detective, Jim Belushi e l’Eddie
Murphy, sempre di “48 ore”), a ben guardarli sembrano la formica e la
cicala della favola.
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“La cicala la fai tu, io non so suonare la chitarra. Al massimo l’armonica”. |
Il primo risparmia anche i centesimi, sceglie di dormire nel
peggior buco della città perché costa poco e lo aiuta a non distarsi, l’altro spende e spande, fa debiti con gli strozzini, un «Patto alla Jesse
James» stando alle sue parole, tanto domani con la sua parlantina un modo per
risolverli lo troverà, non potrebbero essere più diversi uno dall’altro e per
questo tra loro s'instaura un’amicizia virile, altro argomento tipicamente hilliano…
Esiste questa parola? Diciamo allora, di Walter Hill.
James Coburn non deve aver avuto bisogno di molto per
calarsi nella parte, sul set era ben felice di fare il “Secondo violino” di un
corrucciato Bronson, visto che la sua carriera iniziava a dare segni di
cedimento, anche se sul set il problema più grosso con lui era iniziare a
girare le sue scene all’orario stabilito, visto che Coburn attaccava a
chiacchierare con tutti quelli che incontrava (storia vera). Ho una predilezione
per il vecchio James, per me il suo faccione vuol dire infanzia, era in tutti i
film che amavo già da bambino, mi fa sorridere che qui per difendersi
fisicamente, abbia bisogno di Chaney, visto che nella vita reale Coburn era
amico e allievo del Maestro Bruce Lee (storia vera).
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“Capito perché nessuno mi rompe le palle? Ho gli amici giusti”. |
Come detto, per essere un film intitolato qui da noi “L’eroe
della strada” gli eroi sono due aggeggi male in arnese che si arrangiano per
campare, Hill, invece, non si arrangia, ma va dritto come un fuso dirigendo 93
minuti dal ritmo impeccabile, se non fosse per le scene dedicate alla ragazza
su cui Chaney ha messo gli occhi, Lucy Simpson, che altro non è che il pegno da
pagare per avere Bronson in un film di quel periodo, volevi lui? Dovevi beccarti
anche sua moglie Jill Ireland, prendere o lasciare. Infatti, pare che al nostro Gualtiero
sia scappata mezza parola di disapprovazione per la prova di recitazione della
Ireland e che per questo Bronson se la sia legata al dito, rifiutando ogni
futura collaborazione con il regista (storia vera).
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“Tranquilla ci ho parlato io con il regista, tutto risolto”. |
Ora che sapete che le scene in cui compare Jill Ireland sono
quelle che potete usare per le pause fisiologiche, “Hard times” è un film bello
dritto, dove la Boxe non è trattata in maniera eroica e spettacolare, non è un
modo per riscattarsi come accadeva in
Rocky,
ma giusto un modo per restare a galla e poter continuare a camminare a testa
alta.
Un film che è come il suo protagonista Charles Bronson,
parla poco, sarà anche vecchio, ma non ha un filo di grasso né una singola scena
che non serve a portare avanti la narrazione, quando utilizza le parole di
solito snocciola una “Frase maschia” degna di nota, come quando Chaney si
riprende i soldi vinti con i pugni e non concessi per un cavillo, il furbone lo
sfida ad usare la pistola che Chaney gli ha tolto dalle mani «Non hai il
coraggio di usarla» SBAM! Colpo sul muso del furbone tenendo la rivoltella per la canna «Questo è un modo. Vuoi vedere
l’altro?» e poi la pistola la usa davvero, ma solo per fare più danni
possibili al locale del furbacchione.
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Un’arma pericolosissima. L’altra invece è solo una pistola. |
In maniera molto intelligente Walter Hill persevera nel suo
evitare la spettacolarità a tutti i costi, proprio per questo lo scontro con il
campione in carica Ovo sodo (perché è grosso e pelato, non perché è un film di
Paolo Virzì) non arriva a fine film, ma a metà. I lottatori camminano in
silenzio lungo i corridoi in una bella scena lunga, muta, che cerca lo stile
restando essenziale, come tutto il cinema di Hill, il combattimento avrà luogo
in una gabbia tipo quella di “Undisputed”, ma ventisette anni prima e quando
inizia la lotta, è un vero spettacolo.
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Ricordatevi di questa gabbia, tornerà in questa rubrica. |
Per me come dirige Walter Hill, non lo fa nessun altro, qui
mantiene la macchina da presa alla giusta distanza, mostrando bene i colpi sferrati
dai due pugili, hai sempre perfettamente chiaro chi dei due sia in vantaggio
nello scontro, grazie ad una varietà di angoli di inquadratura notevoli, ne ho
contati almeno una decina, uno meglio dell’altro.
Sì, perché il modo di girare di Hill è essenziale, ma
elegantissimo e di fatto “L’eroe della strada” è quasi un film muto in cui la
storia si segue alla perfezione anche senza bisogno dei dialoghi, una
padronanza del mezzo cinematografico impressionante per un regista al suo
esordio.
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Fare cinema è un lavoro duro. |
Hill utilizza le immagini per raccontare, in questo senso
non poteva trovare un protagonista migliore di Charles Bronson che con la sua
faccia, la sua età e i suoi trascorsi cinematografici, ci racconta di un personaggio con un
passato che non ci viene spiegato, ma che possiamo percepire anche solo
guardandolo. Basta vedere quella faccia di cuoio per capire l’etica del
personaggio che, infatti, non lascia l’amico Speed nelle mani degli strozzini
nemmeno per errore.
L’ultimo scontro, quello che chiude il film non è un grande
match spettacolare, è una cosa intima tra poche persone con il grande campione
fatto venire apposta da Chicago per sdraiare Chaney per sempre, qui non ci ho
nemmeno provato a contare il numero di inquadrature e gli stacchi di montaggio,
perché dopo pochi minuti avevo già perso il conto, ho preferito lasciarmi
incantare ancora dal modo in cui dirige Walter Hill che se non si fosse
capito, per me è magico.
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“La vuoi vedere una magia? Due pugni sugli occhi e ti trasformo in un panda”. |
Il nostro Gualtiero Collina si è sempre considerato
essenzialmente un regista di western, “Hard Times” ne ha tutta l’aria, infatti
il protagonista dopo aver raddrizzato i torni, com’è arrivato, se ne va come un pistolero dei vecchi film. Il western sarà una delle cifre stilistiche di tutta la filmografia di Walter
Hill, lo vedremo perché a differenza di Chaney questa rubrica non scompare camminando verso l'orizzonte, al massimo torna tra sette giorni!
Intanto di ricordo la copertina d'epoca di questo film sulle pagine di
IPMP!
Applausi! Per il film e per il bellissimo post.
RispondiEliminaNon sapevo della logorrea di Coburn, come diavolo ha fatto Leone a trasformarlo in un eroe taciturno in "Giù la testa", lo sa solo lui.
Per Bronson era più facile, come dici tu, recita con la faccia, anche per problemi di dizione... dice Sergio Donati, sceneggiatore di "C'era una volta il West", che all'ennesima richiesta dell'attore di cambiare un dialogo, intuì che aveva il problema della zeppola (mi pare si dica così, quando ti esce la "f" al posto della "s") e
glielo chiese apertamente, così Bronson lo guardò con occhi di ghiaccio e rispose "Whatdoyoufay, be feriouf".
P.S. gran bell'idea lo speciale su Walter Hill!
La sapevo anche io la storia della pronuncia di Bronson, proprio per questo, ancora oggi quando sento dire la frase standard del cinefilo “Un attore inespressivo / mono espressivo”, che vuol dire tutto ma anche niente, mi viene da ridere. Dimmi che lo sguardo di Bronson non comunica, dai ;-)
EliminaCoburn era una discreta macchinetta, per nostra fortuna direi, perché ci ha tramandato alcuni aneddoti su Bruce Lee che sarebbero andato persi, poi Leone era Leone, poteva fare anche questo ;-)
Ti ringrazio molto, mi guardo in giro e mi rendo contro che Walter Hill è ignorato, oppure nei casi migliori dati per scontato, spero di poter contribuire nel mio piccolissimo, è l’anno giusto per farlo ;-) Cheers!
Salti mortali di gioia per la nuova rubrica: era ora di iniziare a scalare la Collina ^_^
RispondiEliminaQuesto mitico film getta tutte le basi per il "pit fight" che nascerà nel 1990 da "Lionheart", che in fondo è una sorta di remake di questo. Le idee di Hill le ritroveremo in tutti i film del genere, "figli" di Lionheart: il manager parolaio in cerca dell'occasione giusta, l'eroe di poche parole costretto a combattere dalla vita, l'amore come speranza di redenzione e via dicendo. Hill aveva già detto tutto...
Proprio in questi giorni sto lentamente traducendo una serie di interviste del 1979 agli autori di Alien e c'è pure Gualtiero, che storicamente ha dosato col contagocce le sue dichiarazioni sull'universo che ha contribuito a creare, e anzi dal '79 in poi non ho trovato altro di suo! Che io sappia è l'unico a non essere stato intervistato per il cofanetto "Alien Quadrilogy" (2003), che in tre ore di documentario inedito su Alien ha intervistato pure il barista che portava i caffè ai Pinewood Studios :-D
Sono molto felice che l’iniziativa ti piaccia, era un po’ che la minacciavo, ma è davvero l’ora di iniziare la scalata ;-) Esatto, poi tu ben sai che “Lioneheart” è uno dei miei preferiti, ma davvero Hill più di altri, ha dettato le regole per molti film di genere, qui il “pit fight” e in altri sue film ha scritto il manuale base per ogni regista di genere, infatti è assurdo che non venga mai celebrato come davvero merita. Si, poi è uno di poche parole come i personaggi dei suoi film, non esiste tantissimo materiale su di lui, e su Alien è davvero sempre rimasto abbottonato, considerando che è una saga su cui tutti hanno provato a prendersi più meriti di quelli che avevano, tranne Hill, che i meriti li aveva davvero. Ellen Ripley, ancora oggi il modello per la protagonista tosta al cinema, non esisterebbe senza Gualtiero Collina, Sigourney Weaver l’ha selezionata lui per la parte, no sul serio, il padre nobile del tutto il cinema che piace a no, non vedo l’ora di proseguire, saranno settimane divertenti ;-) Cheers!
EliminaWalter Hill ha un'inizio di carriera (e una carriera tout court) impressionante. Facciamoci caso, da qui al 1982 praticamente solo capolavori. E adesso non se ne ricorda più (quasi) nessuno. Rubrica necessaria, daje così ;)
RispondiEliminaLa filmografia di Hill è qualcosa per cui ogni cinefilo dovrebbe ringraziare, quando sono finite le pietre miliari ha attaccato con film solidissimi di genere, si notava il calo solo perché i primi film erano enormi. Lo penso anche io fosse necessaria, uno dei registi che ha formato il mio (dis)gusto cinematografico, ci tenevo ad iniziare ed ora non vedo l’ora di proseguire ;-) Cheers!
EliminaPrendo appunti, questo mi manca! Ma ha tutta l'aria di un film che potrebbe conquistarmi. Metto in lista e danke schön per la segnalazione. Cioè, James Coburn e Charles Bronson...
RispondiEliminaTi piacerà, perché i due protagonisti sono perfetti così come la regia di Walter Hill, come ha fatto spesso in carriera, anche qui Gualtiero ha sfornato un film che fa da modello per tantissimo film di genere arrivato dopo. Cheers!
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