lunedì 11 marzo 2019

La casa di Jack (2019): Hit the road Lars

“The house that Jack built” è una popolare filastrocca inglese entrata anche a far parte della cultura americana. Si tratta di una specie di racconto cumulativo che ogni volta aggiunge un dettaglio oppure un protagonista alla vicenda, l’equivalente nostrano potrebbe essere “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi che è l’opera che si avvicina di più come struttura.

L’ultima volta che mi sono imbattuto in questa espressione, era in quel capolavoro di Alan Moore intitolato “From Hell”, in cui l’ispettore Frederick Abberline si riferiva a casa sua chiamandola “la casa costruita da Jack”, per sottolineare il lascito e l’importanza nella sua vita di Jack che nella storia in questione era un serial killer, anzi, IL serial killer Jack lo squartatore. Quindi, mi sono stupito poco quando ho scoperto che il nuovo – come al solito chiacchieratissimo – film di Lars von Trier ha per protagonista un serial killer di nome Jack.

La filastrocca è diventata parte della cultura americana anche grazie alle canzoni, un pezzo di Aretha Franklin s'intitola così, ma anche uno dei Metallica, ora che ci penso, anche perché il concetto di un uomo che si costruisce la propria casa, è Yankee nel profondo, forse solo la torta di mele è più americana del concetto di “Self made man” e di beh... Dei serial killer. Solo Lars von Trier poteva chiudere il cerchio su tutte queste cose, con un film talmente pieno di roba, che solo il titolo mi ha ispirato un’introduzione esageratamente lunga, mettiamo un po’ di musica e poi cominciamo!


Definire Lars von Trier un provocatore, sarebbe ampiamente riduttivo, specialmente nell’ultimo decennio questo pazzoide dirige i suoi film con lo specifico intento di far girare i coglioni a tutti, spettatori e detrattori, uno che tiene la conta di quelli che durante la proiezioni a Cannes lasciano la sala durante la proiezione e sfoggia questi numeri con vanto, una guerra aperta contro tutto e tutti mai finita che lo ha portato a diventare “persona non grata” al celebre festival francese dopo le sue affermazioni “naziste” durante la conferenza di presentazione di “Melancholia” (2011), lo stesso festival da cui è rientrato dalla porta di servizio, presentando fuori concorso la sua ultima fatica “The house that Jack built” posso dirlo? Il suo miglior film da parecchio tempo a questa parte.

Sì, perché “Nymphomaniac” (2013) aveva un valore, ma il suo provocare per il semplice gusto di farlo mi aveva un po’ fatto fare spallucce, la frase sui pedofili infilata nel “Part 2” di quel film, mi aveva fatto reagire come una corsa al rialzo nel tentativo di Von Trier di turbare i benpensanti a tutti i costi, me lo immaginavo con il sorriso da Stregatto il nostro Lars intanto a dire: «Questa la scrivo e la metto nel film perché farà incazzare un botto di gente», tutto bello, cioè tutte mosse che posso comprendere, ma in cui il cinema ne usciva come messo un po’ da parte, come per “Antichrist” (2009), titolo che scosse molti, ma che ancora oggi, se mi pronunciate il titolo a me scappa da ridere (storia vera) pensando ad alcune trovate involontariamente comiche in cui, dal mio punto di vista, il genere horror che Lars voleva sfruttare, gli è leggerissimamente scappato di mano, ecco.

“Sta parlando della scena della volpe, a Cassidy quella è piaciuta un sacco”.
Speravo che “The house that Jack built” contenesse tutta la provocazione tanto cara a Lars, ma che fosse anche un film, un horror come prometteva la storia e devo dire che è stato proprio così, il pazzoide danese ha sfornato una delle più lucide riflessioni sulla mente di un serial killer, che mi ha fatto pensare a “Henry, pioggia di sangue” (1986), se non altro per l’utilizzo di certi stilemi del genere horror, ma allo stesso tempo potrebbe essere un nuovo manifesto programmatico per il regista, anche se, a ben guardarlo, sembra più una confessione, quella di un assassino seriale appunto, “La casa di Jack” è la lettera mandata ai giornalisti del serial killer del cinema noto come Von Trier.

Una provocazione? Ovvio, ci sono una serie di ditoni (medi) sventolati davanti alla faccia del pubblico, dei suoi detrattori per tutti i 155 minuti del film e in questa provocazione, provate a dire chi ci è cascato dentro con tutte le scarpe? Bravi, uno strambo Paese a forma di scarpa di mia e vostra conoscenza, che nel tentativo di mettere il bavaglio a Lars ha fatto uscire il film in due versioni, una tagliata e una no, ma entrambe vietate ai minori di diciotto anni. Pare volessero anche mandare un sosia di Maccio Capatonda davanti alle – poche – sale che hanno trasmesso il film in lingua originale senza tagli, tutti vestiti da Padre Maronno e pagati per intimare un e se poi te ne penti? Ad ogni biglietto venduto.

Ultimo girone dell'Inferno quello dei von Trierosi.
Lars von Trier aveva definito “Antichrist” una specie di seduta dall’analista, qui, invece, assistiamo alla vera e propria confessione di un artista che vuota il sacco dichiarando che arte e crimine sono in fondo la stessa cosa e il suo alter ego sullo schermo è Jack, interpretato da un magistrale Matt Dillon folle, spiritato, spaventoso e autoironico, che qui regala una prova ottima ed io mi chiedo perché puntualmente il mondo si dimentica di che razza di attore è il buon vecchio Dillon.

"Sono sull'ascensore per l'inferno, in discesa" (Quasi-cit.)
 1970. Nel Paese che sforna più serial killer al mondo (gli Stati Uniti), Jack è un ingegnere – e già questo dovrebbe farvi preoccupare – con tendenze ossessivo-compulsive che, però, vorrebbe fare l’architetto ed esprime la sua arte uccidendo persone con lo scopo di raggiungere la perfezione che solo nell’arte si può trovare. La sua partita a scacchi con la polizia dura dodici anni e ogni suo nuovo omicidio deve essere sempre più complesso ed ingegnoso, in questo potete tranquillamente vederci l’andamento della filmografia di Von Trier.

Visto che nel film è presente parecchia musica (rock), ne uso un po’ anche io, la sceneggiatura scritta da Lars è il “Diary of a madman” in puro stile Ozzy Osbourne di un artista/regista/assassino che dialoga con il suo misterioso interlocutore chiamato Verge (l’ultima grande interpretazione di un attore incredibile come Bruno Ganz, ci mancherai ragazzo, ma non potevi concludere meglio di così una gran carriera) che rappresenta un po’ tutto quello che vi viene in mente: noi spettatori, i critici, quelli che odiano Von Trier con la forza del loro cuore (e delle loro tastiere). Perché la confessione di Jack serve a far capire a tutti che lui non è un assassino come gli altri e il suo lavoro non deve lasciare indifferenti. Ogni volta che scrivo “Jack” siete liberi di leggere nella vostra testa “Lars” e ogni volta che compare la parola “assassino” voi sostituitela con regista, ok? Tanto il giochino è questo.

La confessione di Jack passa attraverso la cronaca di cinque “incidenti”, altrettanti omicidi scelti tra i più rappresentativi, mescolati ad immagini e riflessioni del protagonista buttate giù a flusso di coscienza, per raccontarci il suo mondo, quella casa da lui costruita, il suo lascito, la sua opera suprema che lo porterà all’epilogo, intitolato non a caso “Catabasi”, anche perché si rifà in tutto e per tutto a quella che forse è la catabasi più famosa di tutte (la divina commedia di Dante), infatti Jack l’affronta con Bruno Ganz nei panni di Virgilio e lui stesso in quelli di Alighieri, letteralmente visto che indossa un accappatoio rosso che mette in chiaro il riferimento.

“Sei sicuro che da qui si esca a riveder le stelle?”, “Sono stato Hitler e un angelo a Berlino, le conosco questa cose, fidati”.
La suddivisione in episodi, quindi, è la stessa già utilizzata in “Nymphomaniac” da cui proviene anche la prima vittima di Jack, una donna (Lars non ti smentisci mai!) interpretata da Uma Thurman e cosa vi ripeto sempre dei primi minuti di un film? Bravi, che ne determinano tutto l’andamento, anche qui è lo stesso.

Jack dà un passaggio ad Uma rimasta a piedi, il cric della sua auto (che nello slang americano si chiama “Jack”) si è rotto, è la classica scena iniziale di un horror (o di un porno ora che ci penso…) in cui Lars von Trier si diverte a prendere in giro tutte le nostre aspettative: normalmente in una scena così è l’assassino che inizia a snocciolare frasi sibilline che terrorizzano l’altra persona in auto, facendogli capire di aver fatto una gran cazzata. Qui è il contrario è Uma che dice a Jack che lui potrebbe essere un serial killer e anzi rincara la dose, annunciando l’arma del delitto come in una partita a Cluedo, il “Jack” sarà proprio l’arma scelta, come una pistola di Cechov pronta a sparare, in quello che è un tentativo di decostruire un canone imposto dal cinema, altrimenti al primo capitolo del tuo film, non uccideresti volutamente la Sposa di Quentin Tarantino, una che “Uccideva Bill” in un film diviso in capitoli, dài!

Voleva uccidere Bill mentre è stata uccisa da un “Jack”.
Lars porta in scena un serial killer cinematografico, la cui opera finale è un film (questo) composto dalle parti di altri film sacrificati sull’altare dell’arte e della costruzione della casa di Jack, la seconda vittima, protagonista del secondo incidente, è Siobhan Fallon Hogan che, questa volta, non riceve la visita di due “Men in black” come accadeva nel 1997, ma quando Jack le illustra che fa bene a non aprire anche se qualcuno si presenta come un rappresentate di una qualche associazione governativa, lei risponde con la stessa espressione interrogativa di quando ai tempi parlava di zucchero e di “Edgar abiti”, prima di fare lei stessa la fine dell’Edgar abito.

“Circa 22 anni fa sono passati due uomini vestiti di nero, uno sembrava Tommy Lee Jones l’altro il principe di Bel-Air se li ricorda?”.
Von Trier pesca a piene mani da ovunque per aggiungere muri portanti alla sua casa, le confessioni di Jack sembrano quelle del Martin di George A. Romero e la sua lucida follia che trasforma corpi – specialmente femminili – in trofei strizza l’occhio al “Maniac” (1980) di William Lustig, in questo senso “The house that Jack built” è un horror a tutti gli effetti, perché dialoga con il pubblico utilizzando la stessa grammatica del genere più sanguinolento di tutti e proprio per questo morti e mutilazioni (che non mancano) faranno forse contorcere sulla poltrona del cinema più il pubblico generico che quello già appassionato di Horror.

Nel suo scavare dentro se stesso, alla ricerca del serial killer dentro di se, Von Trier non ci racconta che il suo Jack è diventato così per via di chissà quale turbamento infantile, anzi, è figlio di due genitori molto presenti e questo forse spiega perché il nostro non ha pietà nemmeno dei bambini, uccisi e usati per mettere in piedi grottesche composizioni. No, il suo Jack è il male che nasce dall’ordinario, uno che porta in scena rappresentazioni del dolore solo per gustarsi gli effetti, uno pronto a “seviziare un paperino” (in una di quelle scene che vi faranno contorcere sulla poltroncina) per vedere l’effetto che fa, il primo, anzi no, il secondo, artista dell’omicidio a ciclo completo, per il primo abbiamo già dato.

"Dimmi ragazzo, danzi mai con Lars nel pallido plenilunio?".
La guerra lampo dei fratelli Marx di Lars von Trier non risparmia tutte le vittime collaterali di una vera guerra (donne e bambini appunto), compresa Simple (la bellissima Riley Keough) che se lo coccola anche mentre lui le tratteggia sul corpo i punti dove la sfiletterà e le sue grida d’aiuto, così come la confessione di Jack/Lars, resteranno inascoltate, il pubblico sarà pronto a credere ad uno che urla in giro di essere un assassino? Oppure penserà ad un’altra provocazione?

“Shh! Shhh! Zitta!”, “Cosa? Che succede?”, “Niente mi stavo solo annusando il dito”.
Nel suo rimestare nel fango, sempre se di fango si tratta, il regista non è tenero nemmeno con se stesso, quel fango un po’ se lo tira addosso e un altro po’ lo trova dentro di sé, si sarà un po’ vergognato delle sue affermazioni naziste a Cannes? Non è dato sapersi, ma nel film sembra (quasi) voler fare i conti anche con questo: parti del corpo umane trasformate in oggetti di uso quotidiano come un portafoglio, oppure l’omicidio con tante vittime in fila da fare fuori con un solo protettile del tipo “Full Metal Jacket” (in un contorto incrocio tra Kubrick e Tom Six), riecheggiano un po’ Mengele e un po’ le esecuzioni fatte al risparmio di munizioni, altre provocazioni, oppure per costruire la sua casa Lars ha usato anche qualche parte di se stesso? Sto iniziando ad usare troppi punti interrogativi per essere uno che ha la pretesa di aver capito il film, ma con lo Stregatto Lars di mezzo è sempre così.

Il Jack di Matt Dillon è uno che si professa serial killer per vocazione artistica, ma che nella vita vorrebbe fare l’architetto, un costruttore di case di case, quindi, che spinto dalla sua sindrome ossessiva, a suo modo, mette in scena spaccati di vita reale come la protagonista di Hereditary, solo che i suoi “diorama” sono più grossi e provocatori come gli artisti sostengono debba sempre essere l’arte. Tutte le buone intenzioni e il duro lavoro (“All work and no play makes Jack a dull boy” cit.) porteranno il nostro Jack dritto all’inferno, rappresentato nel modo più classico e pacchiano possibile, perché per sua stessa ammissione, Von Trier ha dichiarato di non essere interessato a raccontarci di qualcuno all’inferno, ma di capire come fa uno a finirci.

“Ancora un centinaio di uscite in edicola e potrò completare almeno il tetto”.
Se io nel mio infinitamente piccolo ho iniziato in musica, è solo perché la musica non manca per tutta la durata del film, musica Rock, quella che i ben pensati ancora credano ti faccia finire all’inferno, non è certo un caso se Von Trier citi e omaggi alcuni dei più grandi provocatori del Rock, quando fa esibire il suo Jack nella versione locale della sfogliata di cartelli con parole scritte sopra, resa celebre da Bob Dylan nel video di Subterranean Homesick Blues.

L'uomo col cappello di pelle di procione, Vicino al porcile / Vuole undici dollari, E tu ne hai soltanto dieci (Cit.)
Ma anche David Bowie, dài, cavolo Lars va pazzo per il Duca Bianco, in “Le onde del destino” (1996) si sentiva “Life on Mars”, mentre in “Dogville” (2003) era la volta di “Young Americans” qui, invece, tocca a “Fame” che parte a casaccio, oppure ogni volta che il protagonista cambia idea sulla casa, ma comunque sempre per farci riprendere dai contorti pensieri del protagonista. In fondo, anche Bowie provocava vestendosi da Nazista nei suoi spettacoli e definendo Hitler la prima rock star, quindi, forse, anche in questo Lars non ha fatto altro che citare uno dei suoi preferiti.

A ben guardare, proprio in musica finisce la costruzione della casa di Jack, la scena non ve la racconterò mai, bisogna vederla per godere dell’effetto finale, ammettiamolo, dentro la testa di Lars è un gran casino, uno di quelli grossi, ma ci deve essere anche del genio in quel casino, perché altrimenti non lasceresti il tuo protagonista e con lui tutto il pubblico, teso verso un finale in crescendo, per poi far finire tutto così. Il colpo di genio è usare il pezzo che nelle arene NBA accompagna fuori dal campo un giocatore che ha fatto il sesto fallo, l’ultimo disponibile. Quando ho sentito partire “Hit the road Jack” di Ray Charles sui titoli di coda - cantata da Buster Poindexter, pseudonimo di David Johansen dei New York Dolls - sono scoppiato a ridere affermando «Diabolico Lars» (storia vera) ed ora che ci penso è anche l’aggettivo giusto.

What you say?
Hit the road Jack
And don't you come back no more, no more, no more, no more.
Hit the road Jack
And don't you come back no more.

12 commenti:

  1. Ovviamente questo non me lo perdo, come qualunque altra cosa di Lars. Tra parentesi, io la scena della volpe l'ho adorata, e infatti continuo a ritenere "Antichrist" il suo capolavoro, fosse solo per il fatto che è l'ottavo film di Tarkovsky, esattamente come la prima sinfonia di Brahms è considerata da alcuni la decima di Beethoven.
    Grazie, come sempre, per la belle rece, Cassidy.

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    1. Grazie a te, gentilissimo come sempre! ;-) Anche io finisco per vederli tutti i film di Lars, la scena della volpe per me è diventata un momento di culto, ogni tanto la cito con tanto di vocina «Il caos regnaaaa» (storia vera). Avevo visto “Antichrist" al cinema alla sua uscita, diciamo che forse da appassionato di horror, mi era sembrato che Von Trier in quella occasione non sia riuscito tanto a gestire la grammatica dei film dell’orrore, forse non era nemmeno sua intenzione. Trovo che ci sia riuscito molto meglio in questo “La casa di Jack”, ma magari nemmeno qui era sua intenzione farlo, con Lars è così ;-) Cheers

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  2. Con questa recensione potresti addirittura farmi tornare a vedere un film di Lars, regista che ho profondamente amato in gioventù ma da cui poi mi sono separato: lui se ne è andato a fare le sue sperimentazioni sempre diverse e a far incazzare tutti, io - non capendolo - sono andato da altre parti. Però porto ancora nel cuore la sua discesa negli inferi degli omicidi seriali con "Il quinto elemento", visto al cinema come esperienza mistica: chissà che non abbia voluto tornare su territori noti...

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    1. Ti ringrazio, in effetti gli ultimi film mi erano sembrati fin troppo volutamente provocatori per prendermi davvero, questo anche, però mi è piaciuto. Però mi sono perso, perché "Il quinto elemento"? Ho mancato il collegamento mi sa. Cheers

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  3. Dire che condivido anche le virgole di quello che hai scritto - a parte su Nymphomaniac, che ho adorato e a cui questo film è similissimo per la sua struttura - è dire poco. Per me un film bellissimo, uno dei migliori visti da un annetto a questa parte per quanto mi riguarda.

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    1. Lo penso anche io, mi è piaciuto più di quanto avrei pensato. Guarda “Nymphomaniac” non posso dire che non mi sia piaciuto, l’ho preferito ad “Antichrist”, ma nella seconda parte, quando sono arrivato alla provocatoria battuta sui pedofili ho pensato: «Vabbè ciao Lars, ormai ho mangiato la foglia» quindi nella mia testa ho archiviato tutto come una grossa sfida al rialzo nella provocazione. Cheers

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  4. E per la prima volta non concordiamo 😂😂 quasi sicuramente limite mio, ma davvero, manco stavolta Lars è riuscito a convincermi.
    Forse perché ha usato il mio nome? 😱

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    1. Ti ha punto sul vivo ;-) Guarda ho aspettato fino all’uscita Italiana per vederlo, salvo poi dovermi sbattere a cercare una delle poche sale che proiettava il film in lingua originale, per non vederlo tutto tagliuzzato. Ho aspettato perché “Antichrist” sembrava un horror scappato di mano e non mi ha mai convinto, mentre di “Nymphomaniac” scrivevo qui sopra. Proprio per questo non mi aspettavo più niente da Von Trier, invece questo film – forse perché a differenza di Antichrist, come Horror funziona – alla fine mi ha preso abbastanza, tenendo sempre conto delle mille mila provocazioni che ormai fanno parte del cinema di Von Trier. Risultato finale, sono rimasto stupito io per primo dal fatto che il film mi sia piaciuto, proprio non me lo aspettavo. Cheers!

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  5. Mi sono presa un po' di tempo per leggere questo post fiume, ma eccomi qua.
    Che dire, Lars mi ha fregato anche stavolta, diabolico che non è altro, anche se mi tocca ammettere di aver preferito il punto di vista femminile e con del sentimento in più (in mezzo a tutta la provocazione) di Nymphomaniac.
    Qui, comunque, mica si scherza, e lo dico: non mi stupirei se la sostituzione Jack/Lars funzionasse anche senza quella assassino/regista.

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    1. Mi assicuro sempre che i miei lettori non corrano il rischio di restare senza nulla da leggere ;-) Scherzi a parte, nemmeno a me stupirebbe troppo, mi ha stupito ritrovarmi così preso dal film, dici molto bene forse il punto di vista più maschile di questo film (una novità per Lars) mi ha facilitato, anche se ritrovarmi coinvolto con un assassino... Gulp! Cheers

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  6. Ormai invecchio e la memoria è bella che andata. Così l'altro giorno mi capita sotto gli occhi questo film e ho solo un vago ricordo di averne letto nel tuo blog. Non ricordo la trama, non ricordo l'argomento, non ricordo il regista, non ricordo niente di niente di niente. Meglio, così lo vedo senza preconcetti e pregiudizi. Inizio carino, a sorpresa, poi procede strano.. poi più strano... poi ancora più strano... Va be', siamo alla ricerca della scena disturbante per il puro gusto di disturbare, della scena ricercata ma vuota, solo per il gusto di dire "va' come ti faccio scene ricercate". Al secondo sbadiglio guardo il contatore: due ore e mezza di durata??? Ma tu sei scemo! Dopo neanche mezz'ora o poco più metto stop. Per me il film finisce qui.
    Poi mi casca l'occhio sul regista: Lars Von Trier???? Mio Dio....
    Alzo lo sguardo, verso lo scaffale dove tengo i libri monografici che comprai su di lui quindici anni fa, quando lo veneravo come un genio del cinema. Come passa veloce il tempo... O forse sono cambiato io, non so, ma non mi è mai capitato con Lars di avere la sensazione di immagini messe lì solo per fare effetto, la provocazione solo per lo sterile gusto della provocazione. O almeno, con Lars non mi è mai successo prima di "Dogville", quando ha smesso di fare cinema e ha iniziato solo a rompere le balle al pubblico :-D

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    1. Pensa che “Dogville” aveva ancora un bel messaggio critico dentro, mi sono scontrato con lo stesso tipo di fastidio/sbadiglioso con “Antichrist” (che per me sconfinava malamente nell’involontariamente comico) e con “Nymphomaniac” (provocazioni, su provocazioni, condite da altre provocazioni). Trovo che abbia fatto passi indietro come narratore, anche questo film è fin troppo schematico e didascalico in molti passaggi, però ti dirò, alla fine ci ho visto delle cose quasi metacinematografiche che me lo hanno fatto apprezzare, ma prima bisogna passare almeno due ore molto, moooooolto lente. Cheers!

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