martedì 12 marzo 2019

[Guest post] La paranza dei bambini (2019): Una danza (che si balla nella latitanza)

Quanto è bello avere Quinto Moro a scrivere - meglio di quanto avrei mai potuto fare io in un paio di vite - del bellissimo film “La paranza dei bambini”. Lascio a lui la parola e come al solito vi auguro buona lettura!

“La paranza dei bambini” è stato il primo romanzo di fiction scritto da Roberto Saviano, che tuttavia non appare tanto lontano dai suoi lavori d’inchiesta per chi ha l’orecchio teso alle cronache marziane campane e non solo.

La paranza è un fritto misto di pesciolini, di quelli piccoli, che si mangiano tutti interi con testa e lisca. Ed è sinonimo di combriccola, squadretta di compagni inseparabili, come quelli che nel romanzo e nel film intraprendono l’ascesa negli ambienti malavitosi del capoluogo campano.
Da amante dei gangster movie e del “poliziottesco” all’italiana continuo a non capire le polemiche intorno a Saviano e le sue opere. Dopo “Gomorra” anche a “La paranza” tocca la tiritera del “Napoli non è solo questo”, con l’urgenza estrema di dover dichiarare che “oh! Guardate che questa è una storia inventata, non è mica la realtà!”

Ma il film non si apriva con la chiosa “tratto da una storia vera”, eppure il fenomeno delle “baby gang” è realtà assodata in varie regioni ormai da anni, e non ci sono molte opere che raccontino le dinamiche dietro la formazione di giovani criminali. Pensare che “Le mani sulla città”, film che guarda caso parlava proprio di Napoli, e dopo una delle più fantastiche – e demoralizzanti – analisi del funzionamento della collusione tra politica e malaffare si chiudeva con la frase: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Che poi è esattamente quel che vale per “La paranza dei bambini”.

Non trovo che raccontare gli aspetti oscuri di Napoli e della Campania siano una forma di ghettizzazione, credo al contrario che la realtà di quei luoghi riesca a fornire una rappresentazione dell’Italia a tutto tondo. Una rappresentazione estrema, a volte esagerata e stilizzata, com’è esagerata la sceneggiata napoletana dove tutto è moltiplicato e arricchito, ma sa raccontare quel che può succedere da uno spigolo all’altro di questo stivale buttato in mezzo al mare, impastato tra acqua e fango.

“Nicò, ma che roba è ‘sta speranza?”, “Boh, nel dubbio tu spara”.
Sembra che il danno lo faccia sempre chi prova a raccontare la violenza e il crimine, non chi li compie, e non chi tace girando la testa dall’altra parte. Meglio soprassedere per non danneggiare l’immagine dell’Italia, della Campania o di Napoli. Mi ha sempre fatto specie chi pensa si danneggi “un’immagine”, come l’immagine fosse più importante della sostanza. Strana l’idea che si possa fare più danno parlando di ciò che non va, piuttosto che tacere. Meglio sembrare belli, buoni, giusti, funzionanti. Facciamo finta di niente. E guai a parlare di mafie.

Magari è un buon segno se film come questo fanno ancora nascere polemiche. Significa che il cinema ha ancora un qualche valore, ché alle masse può parlare e comunicare. Che poi le critiche ai film di genere in Italia sono sintesi d’ipocrisia e controsenso assoluto, se il cinema di genere è stato dagli anni ’70 ad oggi il terreno più fertile del miglior cinema nostrano e il genere più apprezzato all’estero (che certo non esportiamo le nostre commedie becere, infarcite di scoregge e battutacce, o con cabarettisti convertiti al ruolo d’attori professionisti, con rispetto parlando).

“Nicò, ‘o sindaco s’è offeso che andiamo in giro co’ i mitra”, “Vabbuò, all’elezione prossima di sindaco ce ne compriamo uno”, “Non voglio aspettare le elezioni. Andiamo a sparagli la parabola della tivvù”, “Giusto. Anzi spariamole a tutti, così ‘sta gente va di più al cinema”.
All’uscita del film ero piuttosto scettico. Il romanzo de “La paranza” era troppo denso di eventi per essere sintetizzato in un solo film. Faccio fatica ad immaginare lo spettatore medio che non abbia letto il libro a seguire certi passaggi, così com’era successo a me con Gomorra. Ma “La paranza” ha un percorso narrativo coerente e meno spezzettato e funziona proprio perché si spoglia di tante scene e personaggi. Il film è asciutto e privo di orpelli inutili, forte di un comparto tecnico di tutto rispetto, a partire da una fotografia perfetta e da una colonna sonora intensa e drammatica nei momenti giusti. Poi ci sono le onnipresenti canzoni napoletane che, piacciano o non piacciano, fanno parte della realtà che raccontano e sono parte della scenografia (più che colonna sonora).

Sorprendente l’efficacia delle interpretazioni. Ogni volta che ci sono storie con giovani personaggi – specie quando si includono bambini e adolescenti – ho sempre un brutto presentimento. Qui l’immediatezza e l’istinto del cast conferisce al racconto un aspetto quasi documentaristico. Non c’è una scena che sembri “recitata” per quella spontaneità che si percepisce nella banda di ragazzini, dal bravo protagonista a tutto il cast di contorno. Anzi i più “ingessati” e “recitati” sono i personaggi adulti.

Da sinistra: Piggy, Simon, Ralph, Jack, Sam & Eric (Cit. “Il Signore delle mosche”).
Fa effetto come i conflitti tra ragazzini, le liti e gli screzi tipici di quell’età assumano tutta un’altra forma e dimensione quando si è abituati a tenere una pistola in mano. Quel che sarebbe una spinta o uno sberleffo si amplificano nella minaccia fisica, la pistola in faccia, lo sparo. Il tutto è reso più credibile dal feroce senso di territorialità: quartiere contro quartiere, zona contro zona. E se seduti su uno scooter o su un autobus non avete attraversato una zona ostile in cui dovevate tenere gli occhi aperti come due palle da biliardo, “La paranza” vi farà sentire più fortunati. Ma il fatto è che questo succede a Napoli come a Roma, come a Milano e a Palermo, a Torino e a Cagliari.

La territorialità da quartiere a quartiere è qualcosa di viscerale, un embrione che poi si spande su tutto il resto, sull’affermazione di se stessi per i paranzini che si fanno adulti col piombo piuttosto che con lo sberleffo ai rivali di zona.

“Mi porti a vedere un film romantico?”, “Certo! Fanno la replica di Scarface alle cinque”.
“Meglio il libro del film” è ormai più un meme che una filosofia. “La paranza” del cinema non è nemmeno un film sulla camorra, ma un racconto sul passaggio all’età adulta fatto bruciando tappe e vite, sulla fascinazione del potere. Il Nicola protagonista del film è un “bravo ragazzo”, meno costruito e più spontaneo, mentre il Nicolas del romanzo era concentrato con ferocia nella sua ascesa criminale e nella fascinazione per il crimine e i boss. E se il romanzo ruotava in modo ossessivo sul mondo camorristico, qui il percorso è spontaneo, meno studiato e per questo i personaggi paiono ancora più umani. Resta intatto il messaggio di gioventù affamata e senza alcuna paura di bruciarsi, che aspira all’ascesa sociale a suon di banconote, mobili di lusso e mitra.

Al di là dell’attualità sembra un film sugli anni di piombo, con un focus all’infanzia selvaggia come non se ne trovano molti. Sembrerà banale ma usare attori ragazzini e non adulti (come capita nelle opere americane) che maneggiano armi e si affacciano alla sessualità con frammenti di nudo, strisce di coca e trans, dà al racconto un’impronta più forte e credibile.

“Money! Get away – Get a good job with good pay and you're okay”.
“La paranza” vista al cinema è una versione distillata, che si spoglia di tutto il superfluo, il che rende tutto più immediato e fruibile, la narrazione vive del momento, delle interpretazioni. Molte forzature emergono nel finale, che nel romanzo sembrava scritto da De Palma (penso a “Gli intoccabili” o a “Carlito’s way”), ma qui ne vediamo una versione semplificata, imbastardita e quasi misera.

Gli eventi concentrati nella fatidica notte mancano della giusta tensione, è lì che la regia di Giovannesi mostra il fianco, limitandosi all’ordinaria amministrazione mentre poteva – e doveva – osare di più. Il finale è sostenuto per lo più dalla carica drammatica della colonna sonora, ma l’adunata della paranza è la conclusione ideale: non fa prigionieri, niente buonismi e ruffianerie ma un lucido e crudo promettere altro sangue e rovina, inesorabile e senza speranza, proprio come i paranzini.

P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.

16 commenti:

  1. È un film che non conoscevo assolutamente e di cui non ho mai neppure sentito troppo parlare, quindi non posso fare altro che ringraziare e prendere nota!

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    1. Lo trovi ancora in qualche cinema, non è uscito in sala da molto. In generale forse mi è piaciuto più di “Gomorra”, o per lo meno questo lo rivedrei più volentieri del film di Garrone, ma con Garrone ho un rapporto strambo lo ammetto. Cheers!

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    2. Se ti piacciono i film di gangster all'italiana è da vedere, anche perché racconta il crimine in modo diverso dal solito, sempre dal basso, ma la giovane età dei protagonisti - tutti bravissimi - lo rende ancora più d'impatto.
      Non è stato pubblicizzato molto, anzi l'unica pubblicità l'ha avuta dalle polemiche. Poi ultimamente va di moda sputare addosso a Saviano, fosse uscito 7-8 anni fa avrebbe avuto tutt'altra visibilità.

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  2. E' un caso che quando leggo di questo film mi venga in mente sempre quella canzone? :D

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    1. No, infatti io - malefico fino in fondo - l'ho evocata nel titolo del post, unico mio contributo, ha fatto tutto alla grande Quinto Moro. Cheers!

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    2. Non conoscevo la canzone, ma il titolo ci sta tutto :-)

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  3. Devo recuperarlo, in generale mi pare se ne parli molto poco purtroppo.

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    1. Non è stato tenuto troppo nei cinema, poi come risonanza del cinema nostrano è stato un po' eclissato da "Il primo Re".

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    2. Resta in zona, potresti avere presto la risposta. Fine della modalità sibillina promozionale, non mi viene bene ;-) Cheers!

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    3. Si certo, ho visto Il primo Re e La paranza la stessa settimana, al nostro amichevole Cassidy di quartiere piacendo, potresti trovare a breve il mio commento. Io parlavo a livello mediatico: Il Primo Re ha fatto una buona impressione ed è stato tenuto nei cinema ad oltranza (cosa che mi ha permesso di vederlo), osannato come una conferma o una svolta nel cinema nostrano. Il che è curioso se, a livello commerciale, il film di Rovere è costato 8 milioni e gliene sono bastati 2 per diventare un successo, La Paranza con un incasso di 1 e mezzo è stato descritto come un flop ed è sparita subito dai radar.
      Due film stilisticamente agli antipodi, ma certificano entrambi le potenzialità del cinema italiano, e un discreto stato di salute. Mi capita raramente di vedere film italiani in sala, anche perché ne escono pochi che mi interessano.
      Mi sono piaciuti entrambi, benchè siano diversissimi tra loro, meritano entrambi la visione.

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    4. Al vostro amichevole Cassidy di quartiere piace ;-)
      Non ho ancora visto “Il primo Re” percé ho dato priorità alla “Paranza”, vogliamo dire che hai centrato il punto? In questo momento va di moda sparare su Saviano, non può non essere stato un fattore, ma non voglio passare per complottista, sono semplicemente uno che pensa male, di solito non si sbaglia ;-) Cheers

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  4. Sono un po' fuori dal giro criminale italiano del quale ho visto solo Gomorra (film e libro) e Romanzo Criminale (film e libro). Mi mancano le rispettive serie, Suburra, questo film... Tutta roba che vorrei recuperare...

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    1. Suburra il film, a me è piaciuto molto. La serie molto poco, quindi ti consiglio solo il primo. Cheers!

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    2. Io resto in orbita film, non ho visto le serie. Mi associo per Suburra, gran film da vedere.

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    3. Tra l'altro film e prima stagione si trovano commentati anche qui sulla Bara. Ho iniziato a vedere la seconda stagione di "Suburra" ma no, non posso farcela, già la prima mi aveva urticato con la sua qualità infima. Cheers!

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