18 giugno 2013, American Airlines Arena di Miami,
Florida.
Gara 6 delle Finali NBA tra i Miami Heat e i San Antonio
Spurs, i Texani sono in vantaggio 3-2 nella serie e avanti 95-92 nel punteggio,
mancano solo 13 secondi alla fine dei regolamentari. L’avvocato Federico Buffa
fa la predizione, una delle tante azzeccate nella sua carriera di commentatore:
«Allen è in campo e, secondo me, prima poi anche Allen dovrà entrare in questa
serata».
Il tiro da tre lo prende, ovviamente, LeBron James per
provare a pareggiare e mandare tutto ai supplementari, ma sbaglia. Il rimbalzo
in attacco lo prende Chris Bosh che nobilita con un solo gesto tutti gli anni
passati con la maglia degli Heat. Cosa fai quando hai recuperato la palla più
importante della tua carriera? A risolvergli il rebus ci pensa uno che aveva
già capito tutto, portandosi in angolo, Allen s'iscrive alla serata. Riceve
palla, raccoglie il corpo, posiziona i piedi dietro l’arco in equilibrio tra di
loro e con le spalle, fa partire il tiro, canestro. A 0,8 decimi di secondi
dalla fine della partita, Flavio Tranquillo tuona «Tiro impossibile, nessuno
può segnare questo tiro se non si chiama Ray Allen», mentre a Miami molti
invocano Allen, qualcuno lo chiama Jesus, tanti, invece, urlano: He got game. Che
è il soprannome di Allen, un grande film e il miglior riassunto possibile sul
più grande tiratore da tre punti della storia della NBA, 2973 canestri da 3
punti realizzati in 18 anni di carriera. Ma questo è il più bello di tutti.
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Meccanica di tiro impeccabile e senso del dramma cinematografico (Mario Chalmers nell'angolo già esulta perché sa). |
Ray Allen è nato con un lieve disturbo
ossessivo-compulsivo e un talento coltivato in anni di routine ferrea e
durissimo lavoro, il primo ad arrivare al palazzetto un’ora prima della partita
per tirare da tutti i lati del campo. Sempre allo stesso modo, corpo raccolto,
piedi bene al loro posto, saltare sempre alla stessa altezza, rilascio del
pallone, sempre identico. Nelle arti marziali si chiama Kata, i profani lo chiamano
“Metti la cera, togli la cera”, stessa cosa, perfezione ottenuta grazie alla
ripetizione. Personaggio schivo Allen, niente tatuaggi ed ostentazione, mai una
parola fuori posto, ha annunciato il ritiro con una (bellissima) lettera
indirizzata al giovane sé stesso io cui diceva, lavora duro ragazzo. Unica
concessione alla mondanità, se così possiamo chiamarla, per uno così? L’estate
del 1997 si è preso del tempo per recitare in un film che è solo uno dei
più belli che siano stati mai fatti sulla pallacanestro e tutta la vita che le
gira attorno, perché se uno così fa qualcosa, o la fa bene o non la fa proprio.
Fa’ la cosa giusta Ray.
Spike Lee ha sempre frequentato i campi della NBA, al
Madison Square Garden è una minaccia a bordo campo, vestito in modo improbabile
e con la lingua sempre in movimento, per il suo film sul basket che ha scritto
di suo pungo ed è pronto a dirigere, vorrebbe un vero giocatore NBA, uno che
sappia davvero giocare “He got game”, appunto. Un principio (Sly) Stalloniano
per cui un atleta può recitare una parte drammatica e sarà sicuramente più
credibile di un attore che finge di padroneggiare una disciplina che ha
imparato due settimane prima del primo giorno sul set.
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“Come si chiama quello che devo marcare? Denzel? Lo prendo io quello”. |
Il primo candidato di Spike Lee è un giovanotto che gioca
ai Lakers di nome
Kobe Bryant, potreste averne sentito parlare come di uno dei
più grandi giocatori di questa cosetta con la palla a spicchi, ma il futuro
“Black Mamba” rinuncia idealmente a farsi chiamare “He got game” per il resto
della carriera, perché preferisce allenarsi tutta l’estate ancora furente dopo
la sconfitta rifilata dagli Utah Jazz nei playoffs ai suoi Lakers. Per la nuda
cronaca: in finale i Jazz quattro scoppole a due contro i Chicago Bulls di
Michael Jordan. Ciao ciao, tornate pure al vostro lago salato.
La seconda scelta di Lee è proprio Ray Allen, lui i
Playoffs non li ha giocati perché è l’unico talento dei disastrati Milwaukee Bucks,
quindi decide di passare 23 giorni sul set diretto da Spike Lee e se vi
state chiedendo come si chiama quel giovane e consumato attore drammatico, così
bravo ad interpretare il tormentato Jesus Shuttlesworth e con quel rilascio del
pallone poetico, ora lo sapete.
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Cosa da non fare nella vita se andate di fretta: Chiedere ad un cinefilo di parlare di cinema e ad un giocatore di basket di parlare di pallacanestro. |
La prima volta che ho visto “He got game” avevo 15 anni,
era il 1998 nel pieno della mia passione/ossessione per Michael Jordan, di
sicuro avevo già visto dei film di Spike Lee che per me non era solo il tizio
citato nella sigla di “Willy il principe di Bel-Air”, mi faccio bastare il nome
del regista e il fatto che sia un film sul basket per comprare la VHS (sì, sono
un vecchio di merda, ok?) che ho ancora a casa nella collezione. Sulla locandina
si vede solo il faccione di Denzel Washington che era già uno dei miei attori
preferiti e anche l’unico modo per vendere qualche copia nel film in uno
strambo Paese a forma di scarpa, perché, andiamo, chisselo incula (tipica
espressione di Brooklyn) il basket qui da noi. La VHS la consumo, vedendola e
rivedendola anche con il mio
compare di allora, affetto anche lui da “The Disease” come direbbe l’avvocato Buffa,
passione bruciante per la pallacanestro, lo ammetto, la presenza di Milla
Jovovich e della Universitarie della Tech University sono un incentivo extra.
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Visto incentivi peggiori in vita mia. |
Ancora oggi, vent’anni dopo come in un romanzo di Dumas
(vi ho già detto che sono un vecchio di merda?) è uno dei miei film di Spike
Lee preferiti ed ogni volta che lo dico mi risuona in testa la sigla di “Willy
il principe di Bel-Air”. A vederlo è forse il film più commerciale del regista
di Brooklyn, il classico titolo che puoi consigliare a chi non ha mai visto un
suo film, ma non a chi ama la pallacanestro, perché tanto sicuramente lo
conosce già e, siccome ormai è chiaro che mi sono calato nel ruolo del “Vecchio
di merda”, posso anche ripetere le stesse cose mille volte, tipo che i cinque minuti
di un film ne determinano tutto l’andamento e quelli di “He got game” sono
oro.
I titoli di testa del film sono meravigliosi per
due ragioni: la prima è che sono la presa di posizione di Spike Lee, fin dal
minuto uno del film, “John Henry” nella versione del compositore Aaron Copland,
suonato dalla London Symphony Orchestra. John Henry, l’eroe afroamericano della
tradizione folk, uomo enorme capace d'inchiodare le assi dei binari
velocissimo colpendo i picchetti con il suo enorme martello, la leggenda narra
che sia morto vincendo una sfida contro una macchina costruita per lo stesso
scopo, beccati questo Skynet! L’eroe nero sfruttato che dai bianchi per la sua
forza, Spike Lee non le manda a dire. Secondo motivo per cui i titoli di testa
sono meravigliosi? Perché nessuno aveva diretto così bene la mia principale
occupazione nell’anno 1998, giocare a basket sempre, ovunque, anche quando eri
senza canestro.
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Un'adolescenza riassunta nei titoli di testa. |
Ma l’inizio effettivo del film è ancora migliore: padre e
figlio intenti a giocare a basket, due tecniche di tiro diverse e due campi
diversissimi. Papà si chiama Jake Shuttlesworth, lo interpreta Denzel
Washington con la pettinatura afro e una tecnica di tiro vecchia scuola,
caricando il tiro da sopra la testa come faceva all’High School, prima di dire
al suo Coach di allora «Io vado in California», «UCLA?», «No no, Hollywood, a
fare i film voglio fare l’attore» (storia vera). Il campo è ben recintato, è
quello della prigione di Attica dove papà Jake è ospite da tempo, ma con una
carta da giocarsi, il governatore ha saputo del talento di suo figlio Jesus
Shuttlesworth (Ray Allen), se per caso il ragazzo firmasse per la amata Alma
Matter, ovvero Big State University, papà Jake potrebbe avere in cambio un
sostanzioso sconto di pena, una mano lava l’altra e tutte e due fregano
l’asciugamano.
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“Cosa fa quello? Gioca nella NBA? Si ma l’ha mai vinto un Oscar?”. |
Peccato che il giovane attore drammatico consumato come se recitasse il suo film numero cento, che sul suo (recitato, ma con porte aperte) campetto di casa, non sbaglia un tiro da tre nemmeno se gli sparano, non è molto contento di rivedere nuovamente papà libero di girare, anche se con una vistosa cavigliera sopra le Air Jordan 13 appena comprate dal commesso nel negozio di scarpe («È per l’artrite» , «Sì, mio fratello soffre della stessa artrite, ma alla caviglia sinistra, è una cosa che gira a Coney Island»). Tra di loro il rapporto è sempre stato conflittuale, Jake predicava bene sul campo e razzolava malissimo nella vita, mamma è andata e Spike Lee grazie ad alcuni cinerei flashback sempre più apocalittici ci mostra poco a poco come Jesus sia rimasto da solo con l’adorabile zio Bubba (Bill Nunn) che ora gradirebbe riavere indietro un po’ dei piccioli spesi per nutrire e mandare a scuola il ragazzo e sua sorella minore Martha (Lonette McKee) alla quale Jesus ha fatto da padre, mentre Jake era impegnato dietro le sbarre e a questo aggiungiamoci quel cazzo di nome, "Perché mi hai chiamato Gesù, quando mamma mi chiamava a casa per la cena tutti pensavano fosse una fanatica religiosa, Gesù! Gesù!" Meglio che mi fermo o vi recito tutti i dialoghi.
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Penso che siano ancora il più bel modello di Air Jordan mai fatte. |
Sì, perché “Gesù” Shuttlesworth è il secondo avvento
cestistico, nello speciale di ESPN a lui dedicato, tutti, ma proprio tutti i
più grandi si lanciano in odi sperticate sul suo talento, parlo di giocatori
come Reggie Miller, “Sir” Charles Barkley e allenatori come Rick Pitino e
George Karl, l’unico che si limita ad esibirsi in un morigerato «Ha talento» è
Michael Jordan, in un cameo di un secondo che scatenava i cinque alti tra me e
il mio compare di allora, bastava anche un secondo di MJ a mandarci in brodo di
giuggiole.
Il basket è, ovviamente, centrale in “He got game”, Spike
Lee ha dichiarato di aver voluto evidenziare l’aspetto poetico del gioco, la
bellezza dei movimenti, come se tutto fosse un grande balletto, una danza che
si gioca con i gomiti e con il sudore aggiungo io. Ed è proprio così che Lee ci
mostra la pallacanestro: ipnotica, bellissima, liberatoria, come se per i
personaggi fosse l’unica valvola di sfogo dalla loro prigione che sia fisica o
quella delle responsabilità. L’unico problema per Spike Lee è stato gestire i
ragazzi, pare che nella scena della partita notturna, continuasse a sbraitare a
tutti «Oh ragà! Ogni tanto un tiro, andate ad appoggiarla, non fate solo
schiacciate, questo non è il remake di Above the rim!» (storia vera), l’altro
film cestistico piuttosto famoso del 1994 con Tupac Shakur nel cast.
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Poesia in movimento, la palla che rimbalza e le scarpe che fanno “Gnic Gnac” sono la colonna sonora. |
Ma oltre all’omaggio al gioco più bello del mondo, Spike
Lee non rinuncia certo alla sua presa di posizione, come sempre con il suo
approccio incazzato, “He got game” mostra alla perfezione la pressione che i
giovani talenti devono subire («La decisione più importante della tua vita»
frase ripetuta mille volte anche dal mitico coach Dean Smith), Lee mette in
chiaro che molti di loro arrivano da situazioni familiari disastrate e cadere
nella tentazione, consigliati da qualche “Cattivo maestro” è ancora più
semplice, se le tentazioni sono auto sportive, soldi facili, la tentazione di
fare come Stephon Marbury il primo talento di Coney Island a saltare il college
ed andare direttamente nella NBA (infatti dopo una carriera troppo breve è
finito a giocare in Cina) e, magari, le signorine della Tech University,
posticino che può vantare anche un “Virgilio” d’eccezione come Rick Fox (Uno
che ha sempre
gradito recitare oltre
che giocare a basket), ma anche un allenatore molto (ma tanto!) sopra le righe
interpretato da John Turturro, in una scena che mi fa molto ridere, perché ogni
volta che la vedo penso che insieme sullo schermo ci sono Jesus Shuttlesworth e
Jesus Quintana!
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"Lo hai detto hermano. No se escherza con Jesus!" (e qui ne abbiamo due). |
D’altra parte due pellicole hanno raccontato al meglio i sogni
di gloria delle aspiranti stelle della NBA, una è il fondamentale documentario “Hoop
Dream” (1994) e l’altra proprio “He got game” perché per Spike Lee, appena lo
sport si sposta dai playground, diventa una macchina per fare soldi pronta a
stritolare e sfruttare i ragazzi di colore per il loro talento e la loro
prestanza finisca, “Rage against the machine” se mi passate il paragone ardito,
né più né meno del giù citato John Henry che sfidava la macchina e moriva nel
farlo, ma qui, invece di un grosso martello, si usa una palla da basket, anche
se il sudore e la fatica sono gli stessi.
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Fun Fact: Hill Harper interpreta l'adolescente Booger amico di Jesus, ma quando ha girato il film aveva 32 anni (storia vera). |
Infatti, in questo senso, l’unica sottotrama efficace, ma
che a tratti potrebbe quasi essere accessoria rispetto alla storia, è quella
della “Prostituta dal cuore d’oro” (ruolo ingrato che prima o poi tocca a tutte
le attrici ad Hollywood, il corrispettivo maschile non esiste, se non forse in “S.O.S.
summer of Sam” sempre di Spike Lee) Milla Jovovich.
Personaggio che è riuscito a far incazzare tutte le “Sorelle” nere ai tempi,
perché nel 1998 l’unico afroamericano più sexy di quello con il 23 che giocava
nei Chicago Bulls, era proprio Denzel Washington e diciamo che il pubblico
femminile non ha gradito vederlo impegnato con una che è bianca come la neve a
Natale (storia vera).
Con il suo solito piglio di uno che non te le manda certo
a dire, Spike Lee utilizza tutto quello che ha per far arrivare forte e chiaro
il suo messaggio, principalmente musica e cinema, partiamo dalla prima. L’idea
di abbinare le maestose composizioni di Aaron Copland alla musica arrabbiata
dei Public Enemy (già al lavoro con Spike Lee nel 1989 per le musiche di “Fa’
la cosa giusta”) è assolutamente vincente e, anche se Copland ha lasciato
questa valle di lacrime, Lee ottiene dagli eredi la possibilità di pescare tra
le sue migliori composizioni per il film. Un po’ come fanno i Public Enemy che
campionano una delle più belle canzoni di protesta mai scritte “For what it's worth”
dei Buffalo Springfield e la cantano proprio con Stephen Stills, il risultato
finale è uno dei miei pezzi preferiti dal 1998 che prende il titolo del film “He
got game”.
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“Se non fai il bravo scappo con Luke Cage” , “Ma chi quel tappo? Non farmi ridere”. |
L’altra arma di “Incazzamento di massa” di Spike Lee è, ovviamente, il cinema, bisogna dirlo nel suo mandare messaggi usando la bomboletta spray, il regista di Brooklyn spesso sbraga, ma trovo che “He got game” anche senza mandarle a dire sia uno dei suoi film più eleganti. Amo la telefonata della fidanzata di Jesus (una giovanissima Rosario Dawson) che cerca di convincerlo a firmare per un’università piuttosto che un’altra, mentre Spike Lee ci mostra qualcuno intento ad accarezzare la mano della ragazza (non come farebbe un padre, ecco) quando è al telefono, un gran modo di raccontare per immagini.
“He got game” funziona alla grande perché non può essere
apprezzato solo da chi è affetto da “The Disease” (anche se aiuta), si tratta
principalmente di un riuscitissimo dramma, una storia di padri e figli che si
scoprono più vicini di quello che forse avrebbero anche voluto essere, di
opposti, ma uguali nel loro essere solo ingranaggi in un sistema più grande di
loro, dove la pallacanestro è l’unico linguaggio comune che entrambi parlano
e per cui l’unico, in cui possono comprendersi davvero.
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Il campo comune, può essere solo quello da gioco. |
Aiuta, poi, avere due ottimi attori drammatici che sanno
giocare a pallacanestro (o viceversa, a vederli recitare e giocare non si
capisce più il confine tra le due cose), Denzel qui è grandissimo, lo dico
tanto ho già sbragato: tra le tante prove di questo grande attore, quella
offerta in “He got game” è una delle mie preferite. Il suo Jake Shuttlesworth con
il suo parlare costantemente di Michael Jordan («Parli solo di Jordan. Jordan
qui Jordan là») mi ha conquistato subito, il resto lo mette Denzel che lo
interpreta pentito, ma con orgoglio, una prova dolente prestata ad un
personaggio che ha sempre sbagliato l’approccio con i suoi figli e l’unica
volta che riesce a parlare al figlio lo fa spiegandogli la ragione (ovviamente
cestistica) del suo nome, perché il basket è tutto quello che conosce e proprio
grazie al gioco ha fatto l’unica cosa buona da genitore della sua vita: insegnare
il gioco (e l’amore per) al figlio. Il suo monologo su Earl Monroe che tra i
mille soprannomi aveva anche “Jesus” (convertito poi in “Black Jesus” perché
non poteva essere confuso con il Gesù dei bianchi) è un blaterale di
pallacanestro che vale come e se non più di un "Ti voglio bene", che pronunciato da uno
così non risulterebbe altrettanto sincero.
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Nemmeno la salopette (non si esce vivi dagli anni ’90) intacca la potenza del momento. |
Le passioni di Spike Lee, il cinema e la pallacanestro
convergono in quel finale lì, che da buon appassionato di cinema degli anni ’70,
Lee scippa a “Il grande Santini” (1979) con Robert Duvall nella padre del
padre che il regista di Brooklyn porta, però, ad un altro livello, anche di
competizione, perché nella sceneggiatura originale, Jake avrebbe dovuto perdere
con un quindici a zero a zero secco, ma Denzel Washington come ogni giocatore
di basket che si rispetti, non voleva perdere nemmeno per finta, quindi pare
che abbia detto a Ray Allen prima di girare una cosa tipo: «Si fotta il
copione, non ho nessuna intenzione di renderti la vita facile» (storia vera).
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Il modo migliore per risolvere una disputa, anche generazionale. |
Ed ecco perché Jake riesce a segnare i primi canestri,
prima che Jesus dilaghi e lo asfalti sul campetto senza pietà («Tira fuori quel
odio che hai nel cuore o finirai solo come un altro negro, come tuo padre»),
qui Spike Lee prolunga la tensione di quel finale, la partita tra le due
generazioni di Shuttlesworth è finita, ma il film ha ancora delle cose da dire
e qui anche la pallacanestro cede il passo al cinema, perché mentre sentiamo le
parole della lettera di Jake al figlio e le musiche di Copland vanno più su
delle parabole dei tiri a canestro, il lancio del pallone oltre le mura oltre
ad essere un metaforone emozionante è un ideale passaggio di consegne.
Il
basket è ancora l’unica lingua comune tra padre e figlio, sul campo il pallone
lo passi ad un compagno di cui ti fidi quando è in un punto del campo migliore
del tuo, Spike Lee mette su un finale circolare (come la rotazione del pallone
in volo) che riprende la prima scena del film per concludere la sua parabola
allargando il campo e lasciando spazio libero ai suoi “Players” (come vengono
etichettati gli attori, nei titoli di coda di tutti i film di Lee), due che in
linea di massima, con la palla in mano sanno cosa farci. CIUFF! Tre punti, uno
dei più bei film di Spike Lee (e sul basket) è appena andato a segno.
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“Da qui si sente solo il rumore della retina”. |
«Questo Monroe gioca con delle variazioni di tempo che
avrebbe potuto comprendere Thelonious Monk».
Nelson George
«Monk era il titolare del miglior paio di mani mai poste
da umano su un pianoforte.
Nelson George è stato uno dei più grandi critici musicali
d'America, anche lui scosso e commosso da Earl Monroe, che è stato e sempre
sarà The Black Jesus».
Dall'introduzione di "Black Jesus - The
anthology" di Federico Buffa.
Oggi (come ieri...) sto facendo i conti col disastro dell'acqua alta (leggi: sto pulendo come un pazzo!). Ma questo film e questo post non posso perdermelo! Prometto che ripasso appena finito di sgobbare (e bestemmiare...).
RispondiEliminaLascia perdere, ci sono cose più importanti, tipo fronteggiare questo tempo di merda, il post non spacca in bocca al lupo! Cheers
EliminaHo fatto una pausa perché sta bomba di film mi chiama. E dannato Cassidy ora devo trovare un paio d'ore per rivedermelo!
EliminaApro subito una parentesi però per chi è a digiuno di basket. Guardatevi e/o informatevi su cosa sono state le finali citate dal buon Cassidy e cioè 2013 tra Spurs e Heat (sull'ultima azione si potrebbe aprire un trattato su come gestire i finali e nota personale, l'hanno persa i texani dal Pop in giù. Io su ste cose sono cinico: fallo tutta la vita e li mando in lunetta con due tiri liberi. Col cazz@ che gli conceto il tiro da 3! E per te Cassidy? Sei "americano" o "europeo"?) e 1997 tra Jazz e Bulls (e qua si potrebbe scrivere un libro tra ciò che Kerr e Jordan si sono detti e hanno fatto. Recuperatevi uno speciale di Buffa su MJ che racconta il loro rapporto).
Film della vita e come per ogni appassionato di palla a spicchi è fondamentale. Solo "Colpo Vincente" può tenergli testa (e vincere, per me...) ma per chi è stato giovane negli anni '90 quest'opera di Lee è una sorta di testo sacro. Denzel Washington che fa il padre di Ray Allen in un film sulla cultura nera con i Public Enemy in sottofondo e camei e comparsate di veri giocatori NBA. Ciao proprio! Sarà anche un film "commerciale" per la media di Spike Lee ma a mio modestissimo parere è il suo miglior film.
P.S.: Rick Fox... Il fratello brutto di Jeanene Fox?
Non hai fatto una pausa, hai chiamato Time Out.
Elimina“Colpo Vincente” è migliore perché è un film sul basket, questo è un film in cui il basket è fondamentale infatti la frase di lancio sulla locandina lo riassume bene: Il padre, il figlio e il gioco Santo. Cresciuti negli anni ’90 nel mito del basket… Presente! :-P
Non avevo idea di chi fosse Jeanene Fox, prima di cercarla su Google, da quello che vedo si, lui è il fratello brutto ;-) Cheers!
P.S. In questo caso il problema non si pone, l’hanno persa i texani ma prima, quando è uscito il tap-in per il +5 di Tim Duncan che avrebbe reso inutile anche un miracolo di Jesus. Non a caso, l’unico gesto di rabbia (rivolto a sé stesso) di Duncan in una carriera ventennale. Tutto materiale per le finali successiva, per certi versi anche più belle.
In generale, il primo che su un campo NBA farà un fallo all’europea, genererà un caso, che probabilmente farà modificare il regolamento. Qui da noi si fa fallo, in America si lascia decidere al campo (ball don’t lie!) è una questione culturale.
Filmone Cass,lo metto vicino a "Chi non salta bianco è",senz'altro meno raffinato e profondo del film di Lee,ma altrettanto bravo a "spiegarci" la metafora del basket....
RispondiElimina“Chi non salta bianco è” è un classico, penso sia il film che ha illustrato meglio di tutti come la pallacanestro serve anche fuori dal campo. In “He got game” invece Spike Lee la rende una parte fondamentale della sua storia, il basket qui è quello che i protagonisti utilizzano per comunica, ma Lee non abiura nemmeno la critica sociale (mai fatto in vita sua) e porta avanti la sua tesi, in comune hanno una passione per il gioco enorme, li adoro entrambi ;-) Cheers!
EliminaFilm ottimo, Ray Allen tra i miei giocatori preferiti, anche se non facevo il tifo per loro quell'anno: primo, anche se non è nella loro cultura, dovevano fare fallo, ma su quello sappiamo tutti che è una battaglia persa con gli americani. Secondo... era passi grande come un grattacielo. Ma lì vai ad essere l'arbitro e a fischiare passi senza venire ucciso all'istante
RispondiEliminaIl massimo per me è stato Ray Allen ai Celtics, quando è andato a Miami, James ha avuto finalmente il tiratore da tre che chiedeva, anche uno piuttosto bravino in linea di massima. Penso che Allen sia stato l’unico motivo per cui (da non tifoso schierato) comunque sono stato contento per la vittoria di Miami, anche io però ero più per gli Spurs, che comunque si sono rifatti alla grande l’anno successivo.
EliminaLa questione dei passi è ancora più irrisolvibile del non fallo quando sei sopra di tre, che sarebbe anche più facile da risolvere, basterebbe fischiare sempre ;-) Quella proprio è una cosa che non comprendo, il non-fallo posso capirlo, è cultura di gioco, ma i passi? Sono il regolamento, anche senza il mezzo passo da Superstar vedremmo comunque delle gran giocate, quindi non ha senso concederlo. Cheers!
Ma come cazz 'i porta i capelli Danzel?
RispondiEliminaNo, va be', 20 anni dopo, mi hai fatto venire voglia di recuperare 'sto film, nonostante non sia un fan di Spike Lee!
Applausi per la citazione alla sigla di Willy il Principe di Bel Air: "le mie toste giornate filavano così, tra un mega-tiro a canestro e un film di Spaik Lì!".
I capelli di Denzel in questo film sono stati oggetto di discussioni (a lungo) con il mio compare dell’epoca, ad un certo punto sfoggi anche le treccine, domando il suo afro con beh, un pettine afro ;-) Caldamente consigliato, secondo me ti piacerebbe ne sono abbastanza sicuro ;-) Cheers!
EliminaSplendida recensione: non mi aspettavo da meno da te ^_^
RispondiEliminaHo adorato il film pur non avendo la minima idea dei suoi retroscena, quindi ti posso testimoniare che anche non sa proprio nulla di basket (ma proprio zero zero) può gustarsi questo gioiellino, grazie ad un Denzel in formissima e a una sceneggiatura da leccarsi i baffi.
In fondo, poi, mica solo "quel" Gesù ha avuto le tentazioni...
Ti ringrazio moltissimo, anche per avervi dato l’assist giusto. Avevo il post in testa e mai il tempo (o la voglia) di mettermi al lavoro sul serio, dopo la tua intervista baskettosa ho capito che il momento era quello giusto, quindi grazie mille! :-D
EliminaPenso sia ancora uno dei migliori di Spike Lee ed è così bello sotto tutti i punti di vista, che lo si può solo apprezzare. Hai proprio ragione! L’ultima tentazione di Jesus alla Tech University ;-) Cheers!