domenica 25 settembre 2016

Pearl Jam - TEN: I'm still alive (anche dopo venticinque anni)


Lo so, sono in ritardo di qualche giorno per celebrare in tempo i 25 anni dell’uscita di “Ten” il primo disco dei Pearl Jam, che venne pubblicato il 27 agosto del 1991. Capitemi, o almeno provateci, non credo ci sia nulla di più banale di un fan dei Pearl Jam che parla (bene) di “Ten”, ma allo stesso tempo anche complicato, dopo venticinque anni cosa si può dire ancora di un disco fondamentale, che ha venduto dieci milioni di copie e tutte quegli altri numeroni impressionati lì?

Ho davvero un solo modo per parlarvi di questo disco, il mio, quindi scusate se da qui in poi sarò più sbilenco e stropicciato del solito, “Ten” non è un affare da poco.

Ora, mi sono interrogato tutta la vita su quale sia stato il momento in cui ho iniziato ad ascoltare i Pearl Jam, come è iniziato tutto, la risposta che mi sono dato è chiara: non me lo ricordo.

Strano, perché la memoria di solito mi supporta, quello che ricordo bene sono i pomeriggi da qualche parte a metà degli anni ’90, ho già contratto da diversi mesi quella che l’avvocato Federico Buffa chiama “the disease”, la passione per la pallacanestro, tutto il tempo che non passo tra libri, fumetti e film lo passo al campetto o in palestra a giocare a Basket, il giochino si sta sdoganando presso il grande pubblico, sulle reti tv iniziano a passare qualche partita, ma, soprattutto, l’appuntamento fisso settimanale: NBA Action.


Un frammento (non a caso) della sfocata sigla di NBA Action,
Mezz’ora di notizie, schiacciate, interviste, schiacciate, azioni, schiacciate dalla lega professionistica più famosa del mondo, ci si ritrova con gli amici a turno a casa di qualcuno per esaltarsi in gruppo, intanto il videoregistratore a casa fa il suo dovere, perché poi in settimana si rivede più e più volte l’episodio, in attesa della nuova puntata, lucida follia.

Se già avete una bassa considerazione di me (fate bene) state per perdere anche quella, il livello di malattia (mentale) è talmente alto che persino la sigla di NBA action è un rituale da mandare a memoria, sulla musichetta sincopata scorrevano spezzoni di giocate con commento (esagerato) originale, tipo schiacciata di Grant Hill, “Grant Hill an explosion!”, seguito a ruota da “in your face shot!”, il fatto che io ricordi ancora le frasi vi dice abbastanza dei miei problemi. Tra le frasi più colorite, il mitico urlo “Moooookieeeeeeeee!”, che altro non era che l’esultanza dopo un canestro di Daron Oshay Blaylock, detto Mookie, guardia dei New Jersey Nets prima e degli Atlanta Hawks dopo, gran difensore ed esperto di palloni portati via agli avversati, giocatore di culto e tormentone sul campo, porti via la palla al tuo avversario e vai via in contropiede al grido di “Moooookieeeeeeeee!”, ho già usato l’espressione follia, vero? Ok, voi direte: "Cosa c'entrano il vecchio Mookie Baylock e il fatto che non sono tutto finito con “Ten” dei Pearl Jam?". C'entrano, siate buoni se potete (cit.).


Mookie in palleggio, su di lui in difesa, uno piuttosto famoso.
Mesi, giorni? Settimane? Non ricordo, tempo dopo un mio amico mette le mani sulla biografia di Dennis Rodman, io cresciuto nel culto dei Bulls di Michael Jordan, ho una sacrosanta venerazione per Rodman, magari lo conoscete per qualche (tendenzialmente brutto) film, o per il suo look appena appena eccentrico, mettiamola così: nessuno su un campo da basket è stato più irripetibile nel look e nel talento del “Verme”. Nel libro, parte della sua mattissima visione della vita e delle cose del mondo, il titolo “Bad as i wanna be” suona ancora oggi come un capolavoro (e manifesto intellettuale), sulla copertina Rodman nudo su una Harley Davidson, con una palla da basket a coprire le vergogne, quando distribuivano la timidezza Dennis era a letto a smaltire la sbornia.

Occhio che qui ora i Pearl Jam rientrano in scena, non vi addormentate, dai, che ci sono quasi! Nel libro Rodman fa due cose: la prima, illustrarmi tutti le derivazioni possibili della parola “culo”, sul serio, prima di allora non credevo che si potesse fare un utilizzo così creativo di questa parola per iscritto, grazie Dennis per la lezione. L’altra è descrivere in dettaglio le sue acrobazie tra le lenzuola con Madonna e, anche qui, abbiamo tutti da imparare dal vecchio Dennis.


Dennis, icona di stile e maestro di vita.
Mettiamola così: non proprio il libro che la maestra vi darà da leggere a casa per l’estate! Ad un certo punto, il maestro Rodman snocciola la perla, parla di sua figlia, si fa sincerissimo parlando del suo timore che un giorno una volta cresciuta, possa prendere le distanze da lui e dalle sue stramberie, per farlo cita il suo gruppo preferito, i Pearl Jam (Finalmente!!) “Non chiamarmi figlia, non mi si addice”, colgo al volo la citazione, ovviamente la canzone è “Daughter”, la conosco, è di quel gruppo che piace solo a me, perché i miei amici ascoltano altra roba. Dennis Rodman è un super fan del gruppo, ancora oggi, quando suonano a Chicago, città natale del cantante Eddie Vedder, sale sul palco e sull’ultimo pezzo prende in braccio Eddie (storia vera), memore di quando negli anni ’90 quando i Bulls vincevano tutto, Eddie e il bassista Jeff Ament non si perdevano una partita della squadra di Michael Jordan.

Mi sembra il caso di dirlo: Double Team, gioco di squadra.
Per merito (o per colpa? Fate voi, io direi grazie) di Rodman approfondisco quel gruppo che mi piaceva, di cui conoscevo già “Daughter” (quindi l’album “VS”) e altri pezzi, in un era pre-internet scopro che il primo disco si chiama “Ten”, lo compro sulla fiducia, ancora oggi è nella mia collezione, consumato dagli ascolti ma in ottimo stato, non credo di aver mai speso i miei soldi in modo migliore.

Ogni volta che i PJ suonano a Chicago, questi due finiscono così.
Non ricordo nulla del primo ascolto del disco che per me è sempre un po’ un rituale quando ne compro uno, mi sarò isolato per sentirlo come si deve (cosa che cerco di fare ancora oggi), non ricordo le reazioni, non ricordo quasi nulla, in effetti non ricordo nemmeno quando ho smesso di ascoltarlo, forse per una semplice ragione: non ho mai smesso di farlo.

Venticinque anni dalla sua uscita, qualcuno meno da quando io ho scoperto gruppo e disco, sono ancora il mio gruppo preferito, li ho ascoltati sullo stereo, in macchina, in cuffia, su CD, su vinile, dal vivo, li ho cantati sotto la doccia, ai concerti, con il sole, con la pioggia, sul serio, quel primo ascolto di “Ten” iniziato un giorno che non ricordo, penso finirà quando mi metteranno sotto terra con i piedi avanti, nel caso, niente fiori, ma opere di bene, fatevi una bevuta e per la musica, sapete già cosa scegliere.

Vi devo parlare delle origini del gruppo? Del successo dei Mother love bone, della morte di Andrew Wood e di come dalle ceneri di questa tragedia sia nato un gruppetto, composto dal bassista e dal chitarrista dei MLB, Jeff Ament e Stone Gossard, insieme al loro amico, il chitarrista appena appena bravino Mike “McFucking” McCready e l’allora batterista Dave Krusen, abbiano fatto avere tramite passa mano (tra cui quelle di Matt Cameron, attuale batterista del gruppo, e dei Soundgarden prima) la loro demo incisa su cassetta a svariati cantanti, fino al più improbabile, un ragazzo di Chicago, trasferitosi a San Diego in cerca di belle onde su cui fare Surf di nome Eddie Vedder?


I ragazzi, in versione 1991 o giù di lì.
Non che non sarei in grado di farlo, da buon maniaco (ormai la cosa è stata messa in chiaro), mi sono studiato il mio gruppo preferito in tutta la sua storia, per ora vi consiglio il bellissimo documentario “Pearl Jam: Twenty” diretto dall’amico del gruppo, nonché regista con i migliori gusti musicali della storia, Cameron Crowe. Ma prima di scappare a sentire raccontata la storia per bocca dei diretti protagonisti, lasciatemi chiudere il cerchio, prima di battezzarsi ufficialmente “Pearl Jam”, nome scelto perché non vuol dire nulla e suona figo, sapete come si chiamava il gruppo? Mookie Blaylock, dopo il cambio di nome, al momento di scegliere un titolo per il loro primo disco, la scelta è ricaduta su “Ten”, il numero di maglia del giocatore. Ed ora tutti insieme, come ai vecchi tempi: Moooookieeeeeeeee!

Occhio al poster la dietro, visto che Mookie tornava buono in questa storia?
“Ten” è composto da undici pezzi, quattordici nell’edizione Europea con tracce bonus, che poi è la copia che comprai allora, fra le quali la versione dal vivo di “Alive” (lo scioglilingua Alive Live), la dichirazione d’amore assoluto senza risultare melensi “Wash” e la mattissima “Dirty Frank”, di cui Rob Zombie, amico del gruppo da anni minaccia di fare su un film, personalmente, la storia dell’autista di bus cannibale che porta i ragazzi al concerto meriterebbe i soldi del biglietto.

Un disco talmente sincero e intimo anche nei temi, da risultare assoluto come il suo successo commerciale, tanto che gli stessi Pearl Jam hanno impegnato gli anni ’90 a cercare di scrollarsi di dosso la celebrità e le pose da Rockstar che chiunque, specialmente i tipi della Epic Records volevano per loro. Di tutta la cricca dei quadrettati di Seattle, i Pearl Jam sono sempre stati quelli strambi della cucciolata, i più legati al Rock e al Punk degli anni ’70, anche per questo, pur amando “Alice in catene” con il loro suono quasi metal, i “Giardini del suono” e il fin troppo osannato, mitizzato e compatito Kurt, non ho mai avuto dubbi: questi con il nome spalmabile mi hanno sempre preso al cuore.


L'Abitudine dei salti folli deve ancora perderla dopo venticinque anni.
Se mai la musica avesse salvato qualche anima (ed io credo ne abbia salvata più d’una), “Ten” probabilmente è tra i dischi in grado di farlo, si potrebbe dire che il tema generale è una specie di noi contro tutti, ben riassunto dalla posa del gruppo sulla copertina del disco, il tema ricorrente è quello di “Genitori bastardi contro figli degeneri”, un disco capace di consolarti quando sei incazzato, farti gasare quando sei felice, farti da colonna sonora per i momenti neri e allo stesso tempo di prenderti per il bavero dicendoti: "Datti un giro ciccio!", insomma la musica al suo meglio assoluto.

La perdita di controllo causa rabbia di “Once”, quella stessa rabbia che Eddie Vedder ha sempre avuto negli occhi per anni, lo guardavi con la sua giacchetta marrone ringhiare sul palco e pensavi: questo ragazzo non potrà mai farcela, ha troppa rabbia dentro, nemmeno arrampicarsi ovunque sui palchi (pericolosissima abitudine che ancora non ha del tutto perso) potrà servire davvero. Rabbia ben motivata nel pezzo simbolo del gruppo “Alive”.


La versione in vinile di "Ten", tanto per ribadire il concetto.
Figliolo, ho una storiella per te: quello che tu credevi fosse tuo padre, in realtà non lo era, il tuo vero padre è morto quando avevi 13 anni, mi spiace che tu non l’abbia conosciuto, ma sono felice che abbiamo parlato.
Così inizia “Alive” il punto di vista quasi cinematografico di un ragazzo, che una mattina si sveglia e riceva la notizia da sua madre che fa crollare il suo mondo. Una storiaccia che sarebbe già tremenda se non fosse successa davvero ad Eddie Vedder, origine di tanta di quella rabbia, ruggita in questo pezzo, una risposta che arriva nel ritornello: "Tu mi hai tirato questo carico da cento, ma io sono ancora vivo Hey I, I'm still alive".

Perché amo i Pearl Jam, tra le mille ragioni anche questa, “Alive” suonata su tutti i palchi del mondo è un rito di esorcismo collettivo, trasformare il peggior momento di sempre, in una celebrazione della vita collettivo, la musica per lenire la rabbia e rialzare la testa, riesco a pensare a ben poche cose più buone e giuste di questa, su questo gnocco minerale che ruota intorno al sole.


Ho ragione o no, Ed? Tu che dici?
Il tema genitoriale di “Ten” continua in pezzi come “Why go”, con quel suo riff iniziale che ti porta via e il testo un'altra storiaccia, vera pure questa, di una ragazza finita in cura quando i genitori hanno trovato l’erba in camera sua, con i medici a ribadire “Why go home” e il testo che all’omologazione (She could join the game, boy/ She could be another clone) risponde incazzato a colpi di musica.

Ma “Ten” contiene anche ballate malinconiche, come la meravigliosa “Black”, di cui non sono in grado di dire nulla senza scadere (ancora di più di quanto non abbia già fatto) nel banale. Ascoltatela, vi smuoverà un terremoto di emozioni interiori fin dal primo ascolto, garantito. Ma anche “Oceans” capace di restarti incollata e tirarti sotto come un onda, come un dinosauro in una pozza di catrame.

“Jeremy” s'incastra alla perfezione nel discorso genitori figli ispirata anche lei ad un brutto fatto di cronaca, controversa anche per via del suo costoso video, con satirico vilipendio alla bandiera, ma anche pezzi trascinanti come “Even Flow” pezzo che attenta, insieme ad “Alive” a canzone più suonata di sempre dal gruppo in venticinque anni di carriera. Oppure la fantastica “Porch” che potrebbe essere il mio pezzo preferito del disco, se solo il disco non fosse pieno di pezzi adatti ad ambire a questi titolo.

"E' una cosa Grunge" (Cit.)
Un album talmente bello che “Garden” con la sua riuscita metafora sulla morte (il “Garden of Stone” che non è quello di Stone Gossard, ma un cimitero pieno di lapidi) rischia di sembrare un pezzo dimenticabile, quando, invece, altri gruppi darebbero via un mignolo per averlo composto, iperbole? Chissene tanto ormai ho sbragato.

Dopo tutto questo dolore, fatto di delusioni amorose che tingono il mondo di nero, del Re Jeremy il malvagio che parla in classe, di genitori bastardi e figli degeneri, ma anche di brutte notizie servite a colazione, come si conclude il “Ten”? Con la voce di un ragazzo, ideale voce narrante di tutto il disco, che parla con suo padre che non ha mai conosciuto e prende una posizione chiara: da tutto questo dolore si libererà. Il pezzo è ovviamente “Release”, una catarsi liberatoria: I'll hold the pain / Release me.

Per essere un surfista canti benino sai?
Per venticinque anni e per i prossimi centoventicinque, quel ragazzo parlerà a tutti quello che ascolteranno “Ten”, nelle sue parole c’è ognuno dei Pearl Jam, c’è sicuramente Eddie Vedder che ci ha messo del tempo, ma guardandolo ora pare finalmente che abbia trovato la serenità. Ci siete voi che vi siete riconosciuti nei pezzi di “Ten” e ci saranno anche quelli che ancora non lo hanno mai ascoltato. Ci sono io, io ci sono sicuramente, anzi, io lo sto ancora ascoltando "Ten". Mai smesso di farlo!

Sono riuscito a parlarvi decentemente del disco? Assolutamente no, vi avevo promesso una roba sghemba e sbilenca ed eccola qua, tocca a me citare Frank Zappa: "Scrivere di musica è come ballare di architettura", quindi fate una cosa, ascoltatevi questo che merita, auguri di buon compleanno “Ten”, ah! Un ultima cosa… Moooookieeeeeeeee!

8 commenti:

  1. Il mio disco preferito. La mia band preferita. Ti metto link alla mia tribute. Un progetto nato dalla passione per i 5 di Seattle e non dal desiderio di "farci i soldi".
    https://m.facebook.com/LastDogs/

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    1. Ti ringrazio moltissimo, passerò a trovarvi sul faccialibro per sentire qualcosa ;-) Cheers!

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  2. Huh! Ti stringo la mano a distanza per codesto tuo superpost. Mi hai fatto venir voglia di riascoltarlo (non che sia cosa che richieda sforzi) dal primo all'ultimo brano. Album fondamentale che hai omaggiato decisamente con gusto, partendo dai contorni. E tra l’altro mi hai ricordato di quando anche io negli anni Novanta tiravo palloni dentro ad un canestro, o forse era viceversa. Or bene un plauso a questo tuo post che sicuramente si merita un… ten. :)

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    1. Grazie moltissimo, un omaggio sghembo, ma spero si capisca, molto sentito. Basket e Pearl Jam sono due amore che per me sono nati quasi in contemporanea, per me gli anni '90 sono stato questo. Ti ringrazio molto e ti rispondo con un cinque alto, come sulla copertina di "Ten" ;-) Cheers

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  3. In Italia ancora se li cacavano in pochi e io ho comprato l'album nel mio primo viaggio a Londra. 'nuff said. <3

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    1. Sopravvissuti come loro sono rimasti in pochi, ancora non hanno raggiunto il giusto livello di mito che si meritano, ma poco imposta sono grandissimi ;-) Cheers!

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  4. Io e Pearl Jam non ci siamo mai capiti, ma è colpa mia

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    1. Vanno molto a pelle, conosco tanti a cui non fanno l'effetto giusto. Ma consiglio sempre di provaci, sono di parte ;-) Cheers!

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